Ci sono dischi che non si ascoltano soltanto: si attraversano. “Von den Elben”, pubblicato dai Faun nel 2013, è uno di quei viaggi sonori che profumano di boschi umidi, di leggende antiche e di fuochi che ardono ancora nel cuore di chi crede nella musica come ponte tra passato e presente. Non è solo un album folk: è un incontro fra due mondi, quello degli strumenti medievali e quello della produzione moderna, tra spirito elfico e pulsazione umana.
Chi conosce i Faun sa che non sono mai stati un gruppo “facile”. Il loro modo di fondere arpa celtica, nyckelharpa, flauti, cornamuse e percussioni tribali con voci che sembrano uscire da un sogno ha sempre avuto qualcosa di mistico. Ma con “Von den Elben” la band tedesca decide di compiere un passo coraggioso: portare il loro universo folk in una dimensione più accessibile, più lucida, senza perdere del tutto la propria anima pagana.
Il suono del vento e delle radici
L’album si apre con Mit dem Wind, e già dal primo istante si ha l’impressione che la musica non nasca da uno studio di registrazione ma da un respiro collettivo, da un rituale che ha attraversato i secoli. Il vento, evocato nel titolo, diventa simbolo del movimento stesso dell’anima: soffia tra le corde, accarezza la voce di Katja Moslehner e porta con sé una promessa di libertà.
“Von den Elben”, la title track, è un abbraccio fra antico e nuovo. I suoni sono cristallini, quasi cesellati, ma conservano un calore organico che solo il folk autentico sa dare. C’è una leggerezza che invita alla danza e insieme una malinconia che scende dolce, come rugiada sul muschio. È un brano che sembra uscito da un racconto di Tolkien, ma con una sensibilità terrena, profondamente umana.
Poi arriva Tanz mit mir, il momento più luminoso dell’album. Ritmo trascinante, coro festoso, un invito a lasciarsi andare. Non servono traduzioni per capirne l’intento: è un inno alla vita, al contatto, alla festa condivisa. Chi ama il folk sa quanto sia importante questo senso di comunità, questo battere di mani che unisce sconosciuti attorno alla stessa fiamma.
Magia, erbe e malinconia
Ogni canzone di “Von den Elben” sembra avere un suo profumo. Thymian & Rosmarin sa di erbe essiccate, di armadi di legno e di rimedi tramandati dalle nonne. È un brano che parla di amore e cura, ma lo fa con la semplicità delle cose vere, senza melodrammi, solo con la voce che accarezza e una melodia che ti resta addosso.
Diese Kalte Nacht invece ha un sapore più moderno: un basso pulsante, un tocco elettronico discreto, un’aria che sfiora quasi il pop ma resta in bilico. Alcuni fan storici dei Faun lo hanno visto come un tradimento, ma io lo considero un esperimento riuscito. È come quando un menestrello posa per un attimo il liuto e prende un tamburo diverso: la storia continua, solo con un ritmo nuovo.
A chiudere il viaggio c’è Warte auf mich. Un titolo che significa “Aspettami”, e in effetti è un addio sospeso. La voce si fa fragile, gli strumenti rallentano, resta solo un eco. È come se dopo la danza restasse il silenzio del bosco, e in quel silenzio ogni nota tornasse alla terra da cui era venuta.
Una svolta discussa ma necessaria
“Von den Elben” è stato un punto di svolta nella carriera dei Faun. Dopo anni di produzioni indipendenti, la band approda a una grande etichetta discografica. Il risultato è un suono più pulito, più rotondo, più radiofonico. Alcuni lo hanno definito un compromesso commerciale, ma sarebbe ingiusto ridurlo a questo.
In realtà, il disco mostra quanto il folk possa evolversi senza perdere identità. Non è necessario restare confinati nella nicchia per custodire le radici. I Faun lo dimostrano con eleganza: prendono l’essenza delle antiche ballate nordiche e la vestono con abiti nuovi, senza snaturarla. La produzione è sì più levigata, ma non fredda. C’è un equilibrio tra spiritualità e accessibilità che pochi altri hanno saputo raggiungere.
Perché parlarne ancora oggi
Sono passati più di dieci anni dall’uscita di “Von den Elben”, eppure l’album continua a essere ascoltato, condiviso, riscoperto da chi si avvicina al folk per la prima volta. Forse perché riesce a parlare a più livelli: chi cerca la purezza delle melodie medievali trova pane per i suoi denti; chi preferisce un folk contaminato, capace di dialogare con il presente, lo trova moderno e scorrevole.
Personalmente, ogni volta che torno a questo disco sento la stessa sensazione di quando cammino in un bosco dopo la pioggia: l’aria è pulita, i suoni sono vivi, e tutto sembra appartenere a un tempo sospeso. È una musica che non invecchia, perché parla di ciò che non passa: il desiderio di libertà, la nostalgia, l’amore per la natura, il bisogno di bellezza.
Cosa lascia nel cuore
Dopo tanti ascolti, credo che “Von den Elben” non vada giudicato solo con l’orecchio, ma con la pelle. È un album che si sente addosso. Ti accompagna mentre lavori, mentre scrivi, mentre cerchi pace. Ti fa ricordare che la musica folk non è solo un genere, è un modo di guardare il mondo: con gratitudine per le radici, e con curiosità per i sentieri nuovi.
Chi ama le atmosfere antiche, le melodie che sembrano venire da un’altra epoca, troverà qui un rifugio. Chi invece cerca un folk da scoprire senza sentirsi estraneo, troverà una porta aperta. Forse è proprio questo il segreto del disco: essere allo stesso tempo accessibile e profondo, leggero e carico di simboli.
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