venerdì 24 ottobre 2025

John Hart - La Legge Del Sospetto



È il fiume il mio primo ricordo. La veranda della casa di mio padre vi si affaccia da una collinetta, e ho alcune foto sbiadite dei miei primi giorni di vita scattate proprio lì. Dormivo fra le braccia di mia madre, giocavo per terra mentre mio padre pescava, e ancora oggi ricordo tutte le sensazioni che il fiume mi procurava: il ribollire lento dell'argilla rossa, i piccoli gorghi sotto l'argine, i segreti sussurrati al duro granito rosa di Rowan County. Tutto ciò che ha fatto di me quel che sono è accaduto vicino a quel fiume.
Era sullo sfondo quando ho perso mia madre, mi sono innamorato sulle sue rive. Ne sentivo l'odore il giorno in cui mio padre mi ha cacciato. Faceva parte di me e credevo d'averlo perduto per sempre.
Le cose possono cambiare, mi dicevo. Gli errori possono essere corretti, i torti riparati. È questo che mi ha riportato a casa.
La speranza.
E la rabbia.
Non dormo da trentasei ore e sono alla guida da dieci. Durante settimane inquiete di notti insonni, la decisione si è insinuata dentro di me come una ladra. Non avevo progettato di tornare nel North Carolina  avevo sepolto la mia terra d'origine  ma, senza capire come, mi ero ritrovato con le mani sul volante, e Manhattan era già un'isola che spariva a settentrione. Avevo la barba lunga di una settimana e non mi cambiavo da tre giorni, la tensione era diventata quasi dolorosa, eppure qui chiunque mi avrebbe riconosciuto. Essere a casa, nel bene e nel male, significa questo.
Arrivato al fiume staccai il piede dall'acceleratore. Il sole era ancora basso dietro gli alberi, ma già ne sentivo la violenza. Mi fermai vicino al ponte, scesi calpestando la ghiaia e guardai lo Yadkin River. Nasceva dalle montagne e attraversava due stati. A dodici chilometri dal punto in cui mi trovavo sfiorava l'estremità settentrionale della Red Water Farm, la proprietà che apparteneva alla mia famiglia dal 1789. Dopo un chilometro e mezzo, superava la casa di mio padre.
Non ci parlavamo da cinque anni, mio padre e io.
Non per colpa mia.
Presi una birra e andai a guardare i rifiuti mulinare sotto il ponte cadente. I salici piangenti si sporgevano e le taniche del latte legate ai rami più bassi per pescare ondeggiavano nella corrente. Rimasi a osservare una tanica che affondava scolandomi la birra. La tanica scese ancora e si capovolse controcorrente, disegnando una V nell'acqua. Il ramo si piegò e la tanica si fermò, plastica bianca arrossata dal fiume.
Chiusi gli occhi ripensando alle persone che ero stato costretto a lasciare. Dopo tanti anni avevo creduto di trovarne una traccia sbiadita nella memoria, voci fioche, invece non era così. Il ricordo si spalancava vivido davanti a me e non potevo negarlo.
Non più.
Quando spuntai da sotto il ponte, vidi un ragazzino su una bicicletta arrugginita. Teneva un piede per terra e sorrideva incerto. Poteva avere dieci anni, portava un paio di vecchi jeans e scarponcini sformati, e dalla spalla
gli penzolava un secchio legato a una corta fune. Accanto a lui il mio macchinone tedesco sembrava un'astronave venuta da un mondo lontano.
«Buongiorno» dissi.
«Buongiorno, signore» rispose senza smontare dalla bici.
«Vai a pescare?» chiesi indicando i salici.
«Ieri ne ho presi due.»
«Ci sono tre taniche laggiù.»
«Una è di mio papà» rispose lui scuotendo la testa. «Non conta.»
«In quella di mezzo c'è qualcosa di grosso.» Vedendo che si illuminava, capii che non si trattava della tanica di suo padre. «Hai bisogno di aiuto?»
«Nossignore.»
Anche a me, qualche volta, era capitato di prendere un pesce gatto e, a giudicare dalla trazione, pensavo che il ragazzino avesse acchiappato un mostro nero di almeno dieci chili.
«Quel secchio non basta» gli dissi.
«Allora lo pulisco qui.» Mise la mano su un coltello sottile che portava alla cintura, con il manico macchiato di ruggine. Il fodero di cuoio nero mostrava crepe bianche dove non era stato oliato bene. Quando lo toccò di nuovo, capii che era ansioso di andare.
«Va bene. Buona fortuna.»
Gli passai accanto e lui rimase immobile fino a quando non aprii la portiera. Dal fiume si voltò a guardarmi con un grande sorriso mentre si liberava del secchio e scendeva dalla bicicletta. Imboccando la strada, vidi nello specchietto retrovisore un ragazzino impolverato immerso in una luce dorata e calda.
Mi pareva di ricordare quella sensazione.
Percorsi quasi due chilometri prima che il sole sferrasse l'attacco. La luce era troppo forte per i miei occhi logorati e infilai gli occhiali. New York mi aveva insegnato la durezza della pietra, gli spazi stretti, le ombre. Qui era tutto così aperto. Così lussureggiante.
Così maledettamente verde.
In un certo senso l'avevo dimenticato, e questo era sbagliato per diverse ragioni.
Dopo alcuni tornanti la strada si restringeva. Passai accanto al confine settentrionale della fattoria di mio padre a più di cento all'ora: non potevo impedirmelo. Era una terra coperta dalle cicatrici delle emozioni. Amore e perdita, e una sotterranea angoscia corrosiva. L'ingresso, un cancello spa
lancato e il lungo viale tra i campi. L'ago del tachimetro toccava i centoventi e tutto il male si dissolveva impedendomi di vedere il resto. La parte buona. Gli anni prima del crollo totale.
Dopo quindici minuti arrivai alle porte di Salisbury e, rallentando fino a procedere a passo d'uomo, mi infilai un berretto da baseball per nascondere la faccia. Ero evidentemente attratto da quel luogo in maniera morbosa, lo sapevo, però era la mia terra natale e l'avevo amata, quindi non c'era niente di strano se andavo a dare un'occhiata in giro. Era ancora piena di storia e ricchezza, una città piccola e molto sudista, e mi domandai se conservasse ancora un po' del mio sapore dopo tutti gli anni trascorsi da quando mi aveva sputato fuori.
Passai davanti alla stazione ferroviaria rinnovata e alle vecchie dimore dei ricchi, distogliendo lo sguardo da uomini seduti su panchine note e donne in abiti dai colori sgargianti. Al semaforo mi fermai e osservai gli avvocati che salivano gli scaloni con borse gonfie di documenti, poi giravano a sinistra e andavano a indugiare davanti al palazzo di giustizia. Ricordavo lo sguardo di ciascun membro della giuria, la grana del ripiano del tavolo davanti a cui ero stato seduto per tre lunghe settimane. Se avessi chiuso gli occhi, avrei risentito la pressione dei corpi sui gradini del tribunale e l'impatto quasi fisico delle frasi aggressive, rivedendo i bagliori luminosi delle dentature scoperte in ghigni rabbiosi.
"Non colpevole."
Le due parole che avevano scatenato la violenza.
Diedi un'ultima occhiata. Era tutto lì, tutto sbagliato, e non potevo negare il risentimento che mi bruciava dentro. Strinsi il volante e la strada si inclinò mentre la rabbia si espandeva dentro di me insieme alla sensazione di restarne soffocato.
Percorsi Main Street verso sud e poi verso ovest. Dopo circa sette chilometri trovai il Faithful Motel. Non mi sorprendeva che durante la mia assenza avesse continuato a sprofondare nella sua spirale di fatiscenza sul ciglio di quella strada. Vent'anni prima gli affari andavano bene, ma dopo che le beghine e i predicatori avevano fatto mettere una pietra tombale sopra il drivein a luci rosse dirimpetto, il traffico si era ridotto quasi a zero. Adesso era una lunga, tetra striscia di porte malconce e tariffe a ore, con pensionanti fissi e lavoratori immigrati che dormivano in quattro in una stanza.
Conoscevo il figlio del padrone del motel, Danny Faith. Era stato mio amico. Eravamo cresciuti insieme, e insieme ce l'eravamo spassata. Era un
ragazzo rissoso, un forte bevitore, un paio di braccia in più alla fattoria quando c'era bisogno. Tre settimane prima mi aveva telefonato; era stato il primo a cercarmi da quando mi avevano bandito dalla città. Non sapevo come mi avesse rintracciato, ma non doveva essere stato troppo difficile. Era un tipo fidato, che resisteva anche messo alle strette, ma non un cervellone. Mi aveva chiamato per chiedermi aiuto, voleva che tornassi a casa. Gli avevo detto di no. Io non avevo più una casa. La mia casa era perduta. Per sempre.
Ma quella telefonata era stata soltanto l'inizio, e certo Danny non immaginava cos'avesse messo in moto.
Il parcheggio era sterrato, il motel basso e tetro. Spensi il motore, scesi ed entrai da una sudicia porta a vetri. Appoggiai le mani sul banco studiando l'unica decorazione sulle pareti, una dozzina di deodoranti ingialliti a forma di pino appesi a un lungo chiodo. Inspirai, senza riuscire a sentirne l'odore, e osservai un vecchio ispanico che spuntava dalla stanza sul retro. Era pettinato con cura e sopra la felpa sfoggiava un grosso turchese appeso a un cordino di cuoio. Mi squadrò con occhio esperto e capii subito che cosa vedeva. Un uomo di quasi trent'anni, alto e ben piantato, con la barba lunga ma un buon taglio di capelli e un orologio costoso. Niente anello sull'anulare sinistro. Escoriazioni sulle nocche.
Mentre studiava la macchina parcheggiata alle mie spalle, io lo osservavo fare mentalmente i conti.
«Sì, signore?» disse in un tono rispettoso che in quel posto doveva sentirsi di rado. Abbassò gli occhi ma tenne la schiena diritta, e le sue mani piccole e dure erano ferme.
«Sto cercando Danny Faith. Gli dica che c'è Adam Chase.»
«Danny non c'è» rispose il vecchio.
«Quando torna?» Riuscivo a nascondere la delusione a fatica.
«Non so, signore. Se ne è andato da tre settimane. Non credo che tornerà. Suo padre però gestisce ancora questo posto. Se vuole glielo vado a chiamare.»
Cercai di assimilare l'informazione ed elaborarla. Rowan County produceva due tipi di persone: quelli destinati a restare per sempre e quelli che se ne dovevano assolutamente andare. Danny apparteneva alla prima categoria.
«Andato dove?» chiesi.
Il vecchio scrollò le spalle con un gesto di stanca impotenza. «Ha picchiato la sua ragazza e l'ha fatta volare da quella finestra.» Guardammo il
vetro alle mie spalle e poi lui scrollò un'altra volta le spalle. «Si è tagliata la faccia. Lo ha denunciato e lui è scappato. Da allora nessuno lo ha più visto. Vuole che vada a chiamare il signor Faith?»
«No.» Ero troppo stanco per guidare ancora e non mi sentivo pronto ad affrontare mio padre. «Avete una stanza libera?»
«Sì.»
«Allora la prendo.»
Mi guardò di nuovo. «Ne è sicuro? Vuole una camera qui?»
«Sì» dissi. «Sono sicuro.»
«Per quanto tempo?»
Teneva gli occhi fissi sul mio portafogli gonfio di banconote. Ne tirai fuori una da cento dollari, lo richiusi e me lo misi in tasca.
«Fino a domani.»
Prese i cento dollari, me ne diede settantasette di resto e disse che la stanza tredici era pronta, se non avevo niente contro il numero. Gli risposi che non faceva nessuna differenza, presi la chiave e uscii. Il vecchio restò a guardarmi mentre raggiungevo l'ultima porta.
Entrai nella stanza e chiusi la porta con la catena.
C'era odore di muffa e della doccia fatta dall'ultimo cliente, ma era buia e silenziosa, e dopo tante ore insonni mi sembrava perfetta. Sollevai il copriletto, mi liberai delle scarpe e mi lasciai cadere sulle lenzuola grigie. Pensai per un attimo alla speranza e alla rabbia, chiedendomi quale delle due fosse prevalente in me. In mancanza di certezze, feci una scelta. La speranza. Mi sarei risvegliato animato dalla speranza.
Chiusi gli occhi e mi sembrò che la stanza si inclinasse, poi che si alzasse volteggiando, quindi tutto scomparve e io mi allontanai da me stesso come se non dovessi fare più ritorno.
Mi svegliai con un suono soffocato nella gola e l'immagine di una parete macchiata di sangue, una macchia a mezzaluna che arrivava fino al pavimento. Sentivo battere dei colpi e, non sapendo dove mi trovavo, mi guardai intorno nella stanza in penombra con gli occhi sbarrati. Moquette logora vicino alla gamba di una sedia rotta, una luce fioca che faceva capolino sotto l'orlo delle tende. Il rumore diventò più intenso.
Qualcuno stava picchiando contro la porta.
«Chi è?» Avevo la gola arsa.
«Zebulon Faith.»
Il padre di Danny, un uomo facile all'ira che sapeva molte più cose di chiunque su diverse faccende: com'era fatta la cella di una prigione, come
comportarsi con grettezza e come picchiare un figlio adolescente.
«Un momento» gridai.
«Voglio parlare con te.»
«Aspetti.»
Andai a lavarmi la faccia nella speranza di scacciare l'incubo. Riflesso nello specchio sembravo esausto, più vecchio dei miei ventotto anni. Mi asciugai andando alla porta e aprii, un po' più sveglio. Il sole stava tramontando. Nella luce del tardo pomeriggio il vecchio sembrava accaldato e fragile.
«Buonasera, signor Faith. Quanto tempo.»
Sostanzialmente era rimasto uguale, un pochino più rinsecchito, forse, ma sgradevole come sempre: occhi piccoli e labbra contratte sotto i baffetti. Aveva un sorriso che faceva accapponare la pelle.
«Non sei cambiato» disse lui. «Credevo che gli anni avrebbero cancellato quell'aria da ragazzino perbene.»
Deglutii per il disgusto che provavo. «Cerco Danny.»
Parlò lentamente, strascicando le parole. «Quando Manny mi ha detto che c'era Adam Chase non gli ho creduto. Impossibile che Adam Chase voglia dormire qui, con quella casona di famiglia sul fiume. Impossibile, con tutti i soldi che ha. Ma le cose cambiano, immagino, quindi eccoti qua.» Abbassò il mento e sentii il suo alito rancido. «Non credevo che avresti avuto le palle per tornare.»
Tenni a bada la rabbia. «E Danny?» chiesi.
Liquidò la mia domanda come se ne fosse infastidito. «Sarà su qualche spiaggia della Florida, lo stronzetto. Danny se la cava.» Si interruppe, come se sull'argomento non ci fosse più niente da dire, e mi fissò per un momento lunghissimo. «Cristo.» Scosse la testa. «Adam Chase a casa mia.»
Scrollai le spalle. «Un posto vale l'altro.»
Il vecchio rise in maniera crudele. «Questa topaia mi sta ammazzando.»
«Se lo dice lei.»
«Sei venuto per parlare con tuo padre?» chiese con un bagliore improvviso nello sguardo.
«Penso di vederlo.»
«Non intendevo questo. Sei venuto per parlargli? Voglio dire... cinque anni fa tu eri il principe ereditario di Rowan County.» Mi rivolse un ghigno carico di disprezzo. «Poi hai passato un guaio e sei sparito. Per quanto ne so, non sei più tornato. Deve esserci una ragione se dopo tutto questo
tempo arrivi qui, e far ragionare quell'orgoglioso zuccone figlio di puttana mi sembrerebbe un ottimo motivo.»
«Se vuole dirmi qualcosa, signor Faith, perché non la dice e la facciamo finita?»
Si avvicinò emanando una zaffata di sudore stantio. I suoi occhi grigi erano duri e il naso quello di un bevitore. Parlò con voce acuta: «Non fare il gradasso con me, Adam. Ti ho conosciuto quando eri un pisciasotto come mio figlio, e fra tutti e due non avevate abbastanza cervello per fare un buco nella terra. Ti ho visto ubriaco e ti ho visto sanguinare sul pavimento di tanti bar». Mi squadrò dalla testa ai piedi. «Hai una bella macchina e ti dai le arie della grande città, ma non sei meglio di nessuno. Per me no di certo. E puoi andare a raccontare quello che ho detto anche a tuo padre. Digli anche che ormai di amici non ne ha più.»
«Il suo tono non mi piace.»
«Mi sforzo di essere gentile, ma voi Chase non cambiate mai. Convinti di essere tanto meglio di chiunque perché siete padroni di tutta quella terra e vivete nella contea fin dai tempi di Adamo ed Eva. Però questo non vuol dire che siete migliori di me. Né del mio ragazzo.»
«Non l'ho mai pensato.»
Annuì, e quando riprese a parlare nella sua voce vibravano rabbia e frustrazione. «Di' al tuo paparino che la deve smettere di essere così stramaledettamente egoista, e che è meglio se invece pensa a quelli che abitano qui. Non sono l'unico a dirlo. C'è un sacco di gente che non ne può più. Diglielo pure da parte mia.»
«Adesso basta» dissi muovendo un passo verso di lui.
Reagì subito stringendo i pugni. «Non parlarmi in questo modo, ragazzo.»
Qualcosa di violento nei suoi occhi risvegliò i ricordi e la rabbia. Mi tornarono in mente tutte le volte in cui l'avevo visto comportarsi con grettezza e spregio, com'era stato sempre svelto ad alzare le mani sul figlio a ogni minimo errore. «Vada a farsi fottere» dissi avvicinandomi, e benché fosse un uomo alto, lo sovrastavo. Davanti alla mia rabbia indietreggiò, guardandosi nervosamente intorno. Io e suo figlio ne avevamo combinate di cotte e di crude nella contea e, malgrado quello che aveva detto il vecchio, non ero finito spesso per terra sanguinante. «Gli affari di mio padre non la riguardano. Non l'hanno mai riguardata e non la riguarderanno mai. Le consiglio di andare a parlare direttamente con lui, se gli vuole dire qualcosa.»
Mentre arretrava, lo seguii nell'aria infuocata. Teneva le mani alzate, senza staccare gli occhi da me, e la sua voce risuonò stridula e dura. «Le cose cambiano, ragazzo. Finiscono e muoiono anche a Rowan County. Anche per gli stramaledetti Chase!»
Quindi scomparve in fretta oltre le porte malconce del suo cadente impero. Si voltò due volte a guardarmi e sulla sua faccia affilata lessi furbizia e paura. Mi fece un gestaccio e io mi ritrovai a chiedermi, non per la prima volta, se dopo tutto fosse stata una buona idea quella di tornare a casa.
Rimasi a osservarlo scomparire dentro il suo ufficio, poi rientrai per lavare via lo sporco e il disgusto.
Mi ci vollero dieci minuti per farmi una doccia, radermi e vestirmi. Quando uscii, l'aria intorno sembrava piombo fuso. Il sole bruciava gli alberi dall'altra parte della strada mentre si appiattiva morbidamente sul mondo. Nella luce giallastra volteggiava una nebbiolina di polline e le cicale frinivano. Mi chiusi la porta alle spalle e quando mi girai vidi subito due cose. Zebulon Faith era appoggiato a braccia conserte contro il muro del suo ufficio. Accanto a lui c'erano due ragazzoni con le spalle da armadio e un sorriso ebete. Questa fu la prima cosa che vidi. La seconda riguardava la mia macchina: a lettere cubitali, incise sul cofano impolverato.
ASSASSINO
Meno male che avevo scelto di essere ottimista.
Il vecchio sorrideva sardonico. «Devono essere stati due teppisti» disse. «Sono scappati per di là.» E indicò la strada deserta, verso il parcheggio del vecchio drivein diventato un mare di erbacce cresciute tra le crepe nel cemento. «Che peccato.»
Uno degli energumeni diede di gomito all'altro. Sapevo cosa vedevano: l'auto di un ricco con la targa di New York, un ragazzo di città con le scarpe lucide.
Non avevano idea di come stessero davvero le cose.
Mi avvicinai al bagagliaio, riposi la mia borsa e tirai fuori il cric. Sessanta centimetri di solido metallo. Tenendolo contro la gamba, cominciai ad attraversare il parcheggio.
«Non avreste dovuto farlo» dissi.
«Vaffanculo, Chase.»
I tre vennero verso di me con incedere pesante, Zeb Faith in mezzo. Allargarono la formazione e sentii lo scricchiolio delle loro scarpe sulla terra dura. L'uomo alla destra di Faith era il più alto e aveva un'aria spaventata,
perciò mi concentrai su quello a sinistra. Fu un errore. Il colpo arrivò dal tizio a destra, veloce. Fu come essere picchiati con una mazza. L'altro si buttò nella mischia e, vedendo che mi piegavo, mi colpì con un montante che mi avrebbe spaccato la mascella se non fossi riuscito a frenarlo usando il cric. Centrai il suo braccio teso nell'atto di colpirmi e glielo spaccai come un grissino. Sentii il rumore secco dell'osso che si fratturava e l'uomo cadde a terra urlando.
L'altro mi picchiò ancora sulla testa, e cercai di attaccare anche lui con il cric riuscendo a colpirgli una spalla. Zebulon Faith si mise in mezzo, ma centrai anche lui sul mento e lo feci cadere. Poi divenne tutto buio e mi ritrovai in ginocchio, accecato, preso a calci senza pietà.
Faith era a terra, quindi doveva essere l'uomo a cui avevo rotto il braccio a picchiarmi. E si stava divertendo. Vidi lo stivale alzarsi di nuovo e, con tutte le mie forze, colpii con il cric il suo stinco mandandolo a gambe all'aria nella polvere. Non sapevo se gli avessi rotto l'osso oppure no, e non me ne importava. Ormai non poteva più nuocere.
Provai ad alzarmi, ma avevo le gambe molli. Appoggiai le mani in terra e sentii Zebulon Faith, con il respiro affannoso ma la voce ancora abbastanza forte, dire: «Maledetti Chase». Il vecchio cominciò a lavorare di piedi. Un calcio, poi un altro ancora. A un certo punto vidi la sua scarpa coperta di sangue. Mi stava massacrando sul serio, ansimando come alla fine di una scopata durata tutta la notte, e io non riuscivo a trovare il cric. Mi raggomitolai con la faccia per terra, mangiando polvere.
Fu allora che sentii le sirene.
 
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