Chester dovette affrontare una dura missione quando arrivò nella nostra famiglia: conquistare cinque persone che non lo volevano. Su di lui gravava l’ingrato compito di sostituire Coots, il nostro adorabile gatto tigrato, che era appena morto di leucemia felina. Mio padre, mio fratello, due sorelline più piccole e io avevamo così sofferto per la morte di Coots che decidemmo di non tenere animali almeno per un po’, quindi restammo tutti scioccati quando, un pomeriggio all’inizio di dicembre, mia madre arrivò a casa tenendo in braccio una minuscola palla di pelo bianca e nera con le zampine rosa. Chester Festus Aldo Emery fu il nome che gli fu dato e lui decise di conquistarci. A Natale, dopo essere stato con noi solo poche settimane, era ancora molto piccolo e fragile, e già sgusciava fuori dalla sua cuccia nel cuore della notte, scalava le scale per venire a fare il nido nel mio cuscino emettendo fusa di contentezza.
Con il passare dei mesi e degli anni, le singolari eccentricità di Chester me lo resero sempre più caro. Eccentricità come il camminare lungo il bordo della vasca ogniqualvolta io facevo il bagno, o il nascondersi in sacchetti di carta vuoti, il saltare sopra l’antipastiera ogniqualvolta era sul tavolo o il fatto che gli piacesse starsene appollaiato sulle mie spalle quando camminavo in giro per casa. Ma la cosa più curiosa era che adorava fare il gatto da riporto con una piccola bandiera di nylon. La bandiera, piena di buchi, che lui trattava come un topo, era bianca conuna scritta blu, FAIRBANKS MUSEUM, ed era attaccata con delle graffette a una piccola asta di legno nero. Ogni pomeriggio alle sei e mezzo in punto, quando io mi sedevo a fare i compiti o a guardare la televisione, Chester entrava nella mia stanza tenendo la bandiera tra i denti. La depositava ai miei piedi e io la lanciavo giù per le scale. Lui andava a riprenderla proprio come avrebbe fatto un cane. Potevo udire il rumore delle sue zampe che scendevano di corsa le scale per poi risalire, e nel giro di qualche secondo era di nuovo lì, con i baffi frementi, agitando la coda, facendo le fusa come una macchina da corsa e pronto a ripetere l’impresa. Questo gioco andava avanti per una ventina di lanci per volta, o fino a quando io ne avevo abbastanza, perché, fosse stato per lui, avrebbe continuato all’infinito.
Chester era un gatto di casa e non sembrava mai interessato a uscire, ma qualche volta indugiava un po’ troppo vicino alla porta per i miei gusti.
Ogni volta che la porta era aperta o quando sentivamo bussare, il ritornello “Attenti che il gatto non esca!” risuonava in giro per casa e la voce recitante era sempre la mia. Per essere ancora più sicuro di norma correvo alla porta per; accertarmi che Chester fosse al sicuro.
La sera del giorno dopo il Ringraziamento, io frequentavo le scuole superiori,
avevo appena lanciato la bandiera giù dalle scale per la prima volta, quando sentii un colpo leggero alla porta. Prima che avessi il tempo di guardare giù qualcuno aveva aperto. Era il nostro vicino, Charlie Williams, un caro amico di famiglia che aveva l’abitudine di aprire la porta prima che qualcuno avesse il tempo di arrivare. Il pesante stivale di Charlie entrò nell’ingresso e atterrò esattamente sulla coda di Chester. Si levò un grido altissimo e prima che riuscissi a scendere i gradini Chester era scappato fuori.
Abbandonammo le ricerche tre ore dopo. Chiamare il suo nome nell’oscurità non sortì alcun risultato. Non c’era alcuna traccia della bandierina, alcuna traccia di Chester. Durante quei tre anni lui non era mai uscito, e le sue prospettive di sopravvivenza non erano delle migliori, specialmente con un dobermann e un pastore tedesco che scorrazzavano liberamente nei dintorni e per il fatto che la nostra casa si trova all’angolo di uno degli incroci della città in cui il traffico è più intenso.
Prima dell’alba ero di nuovo in piedi a cercarlo. Niente. Nessuna traccia, il che era positivo, mi dicevo, almeno sapevo che non era finito sotto una macchina. Andai di porta in porta per tutto il quartiere, appendemmo dei cartelli, facemmo comunicati attraverso le radio locali, inserzioni sui giornali, qualunque cosa. Nulla si materializzò. Era come se Chester fosse svanito nell’aria. Ogni sera uscivo sotto il portico davanti alla casa e lo chiamavo mentre, dietro di me, mio fratello e le mie sorelle piangevano.
Con il trascorrere dei giorni, era sempre più difficile affrontare una giornata a scuola senza che le lacrime affiorassero ai miei occhi, soprattutto quando caddero venti centimetri di neve. L’inverno stava avanzando nel nord-est del Vermont e con esso la triste realtà che non avrei mai più rivisto Chester.
Faticavo a dormire la notte, perché avevo nostalgia del tepore del suo corpo sul mio cuscino e della sua lingua che mi leccava il viso al mattino. Infine, pochi giorni prima di Natale, i miei genitori mi dissero che avrei dovuto smettere di chiamare Chester, perché questo inquietava eccessivamente i miei fratelli.
Proprio alla vigilia di Natale, mentre ci preparavamo ad andare a letto, il nostro vicino Charlie, l’amico che quella sera di novembre aveva lasciato accidentalmente uscire Chester, ci chiamò in preda all’agitazione. Era scoppiato un tubo dell’acqua nel suo seminterrato e aveva bisogno di aiuto per sistemarlo. Mio padre, bravissimo nei lavori manuali, afferrò alcuni attrezzi e andammo insieme in aiuto del nostro vicino.
La cantina di Charlie era un disastro. L’acqua spruzzava in tutte le direzioni, inzuppando mucchi di bucato, legna, ricordi di famiglia, ogni cosa.
“Per fortuna non abbiamo nascosto qui i regali di Natale dei bambini!” si consolò Charlie osservando tutto quel caos. Mio padre trovò in fretta la fonte della perdita e cominciammo a ripararla. Dopo circa mezz’ora l’avevamo sistemata abbastanza bene da poter tenere per qualche giorno. Dalla cima delle scale gettammo ancora un’occhiata al seminterrato.
In un angolo, un lembo di nylon bianco, sudicio, che sporgeva da una pila di legna coperta da un telo, attirò la mia attenzione. “Aspetta un momento, papà!” dissi e mi diressi in quella direzione, molto lentamente all’inizio e poi sempre più in fretta. Nella debole luce raggiunsi il lembo di stoffa e lo raccolsi. I miei occhi si riempirono di lacrime quando mi resi conto che si trattava della bandiera di Chester. Mi accucciai e diressi il raggio della pila nello spazio dietro la catasta di legna. A una distanza di circa cinquanta centimetri due occhi di gatto annebbiati, tenuti a stento aperti, mi guardavano da una testa che non aveva più la forza di muoversi. Lanciai un grido e sia Charlie sia mio padre si precipitarono giù per le scale. Spostammo la legna con grande attenzione per poter prendere Chester.
“Deve essere caduto qui attraverso la finestra aperta della cantina ed era troppo spaventato per miagolare”, disse Charlie. “Probabilmente è stato qui per tutto il mese. Ho chiuso la finestra con della plastica l’ultimo sabato di novembre”.
Fragile e sottile, Chester era prossimo alla morte. Lo sollevai delicatamente. I suoi occhi si chiusero con sollievo. Mentre lo portavo su per le scale, appoggiai la bandierina sul suo petto e potei sentire il suono debole delle sue fusa e i muscoli della coda che tentavano inutilmente di muoversi.
Miracolosamente, dopo una visita dal veterinario e parecchie settimane di cure affettuose, Chester si ristabilì e riacquistò il suo carattere vivace. Visse felice con la nostra famiglia per molti anni dopo di allora. Quella che avrebbe potuto essere una delle più tristi feste di famiglia divenne invece una delle più memorabili e ancora oggi, circa quindici anni dopo, continuo a mettere, ogni anno, sull’albero di Natale la vecchia sdrucita bandierina, in onore di Chester.

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