lunedì 3 novembre 2025

Sally Ogden (alias Franco Enna): Kate



Mi camminava davanti, e aveva una gonna a quadri neri su verde, una camicetta grigio perla e un corpo magnifico, agile. I suoi capelli neri, ondosi, erano lì, a due passi da me, sul collo nervoso. Procedendo diagonalmente a lei per un breve tratto, avevo potuto scoprire il suo profilo delizioso, con due occhi di sirena e una boccuccia tirabaci. (Allora non mi ero dichiarato a Celia, per questo mi lasciai agganciare dal desiderio di un’avventura).
Le diedi il primo nome che mi salì alle labbra: Katharine. Subito dopo la chiamai più confidenzialmente Kate, ma sempre tra me, poiché la ragazza non si era neppure accorta che la seguivo, o che facevo la sua stessa strada. Quella sarebbe stata la mia prima avventura a San Francisco, e il pensiero mi elettrizzava. Da tre giorni la farraginosa città californiana mi stava ossessionando. Era la prima volta che vi mettevo piede.
Kate mi saltellava davanti come un uccellino. C’era il sole, era primavera inoltrata, faceva caldo e avevo poco più di vent’anni (quasi venticinque, per essere esatti!).
Riuscii a doppiarla col fiato in gola, dopo un buon miglio. La guardai. Lei mi guardò. Le sorrisi. Lei mi sorrise. Aveva gli occhi blu-notte e un seno gonfio, titillante, sotto la camicetta trasparente.
— Salve, Kate! — mi trovai a dire.
— Mi conoscete? — domandò la ragazza.
Allibii. Per un istante fui sul punto di risponderle negativamente, poi decisi di recitare la commedia e feci un cenno affermativo.
— Ma certo! — risposi. — Non ci siamo visti a Sacramento il mese scorso?
— Eravate voi? — mi chiese Kate raggiante, e si guardò attorno come preoccupata, ansiosa.
Annuii ancora.
Lei continuò, intanto che mi infilava la sinistra sotto il braccio: — Che cattivo siete stato! Siete scomparso all’improvviso, senza nemmeno avermi detto il vostro nome!
«Ah, ah!» dissi tra me, «tu giuochi una carta, piccina mia! Tu non sei Kate, tu non mi hai mai visto prima d’oggi, e io non sono mai stato a Sacramento e sto inventando ogni cosa».
La guardai sorridendo, mentre il dubbio di essere incappato in una furbona mi gracchiava nel cranio. Era decisamente deliziosa, e aveva un’aria innocente che sconvolgeva tutti i miei sospetti. Una ombra strana, come di tristezza, le oscurava la fronte.
— Mi chiamo Marton, — dissi. — Keogh Marton, e sono giornalista.
Lei mi guardò di sfuggita, poi tornò a osservarsi attorno mentre la sua boccuccia si faceva rigida. Stringendomi un braccio sussurrò in tono supplichevole: — Sorridetemi, vi prego! Subito! Sono in pericolo...
Risi forte, naturalmente perché lei me l’aveva chiesto, poi le domandai sottovoce
— Spiegatevi meglio, e state tranquilla.
— Non vi conosco. Lo avete capito, vero? — disse lei con voce incerta. — Mi chiamo Mirna Graves. Sono la figlia di Louis Graves, il banchiere. C’è un uomo in grigio che mi segue... No, non voltatevi! Non subito, almeno.
— Chi è? — domandai.
— Non lo so. Sono due giorni che mi segue. Lui non sa che me ne sono accorta...
— Ma perché vi segue?
— Non so nemmeno questo, ma ho paura!
— Ne avete parlato con vostro padre? — domandai con interesse.
Mirna graffiò la sua borsetta nera di paglia e scosse la testa.
— No — rispose poi, — non andiamo molto d’accordo lui ed io. E poi è fuori città.
— Dov’è andato?
— Non so, per affari. O con qualche donna. — Si asciugò in fretta una lacrima e soggiunse: — Pensa più alle sue donne che a me, lui!
— E vostra madre?
— È morta, — rispose Mirna in un soffio.
— Oh! — feci, e non seppi dire altro lì per lì. Ne approfittai per dare un’occhiata alle mie spalle. Le facce che vidi mi parvero insignificanti. Non un solo uomo in grigio era dietro di noi.
— Dove abitate? — domandai.
— 416, Malvoisin Street.
— Ma che cosa temete che possano farvi? — insistetti.
Mirna ebbe una smorfia di disperazione.
— Ma non so, non so! Ho paura, ecco!
— Temete che possano rapirvi?
— È probabile. O forse anche...
— Che cosa?
— ... uccidermi, ecco! Ma non mi fate altre domande, vi prego.
— Venite, — dissi, — entriamo in questo portone. — E la trascinai nell’atrio di un palazzo di venti piani.
— Dove mi portate? — domandò Mirna con uno scatto di diffidenza.
— Voglio vedere se quell’uomo ci segue, — risposi. — Abbiate fiducia in me, volete?
Lei si strinse al mio fianco. La sentii tenera e trepidante contro di me. Un desiderio pazzo di baciarla mi colse. In quel momento la portiera scorrevole di uno degli ascensori stava aprendosi. C’era un lift dai capelli rossi. I tre uomini che lui aveva accompagnato a pianterreno se ne andarono.
Spinsi la ragazza nell’ascensore e la seguii. La portiera stava chiudendosi, quando un nomo alto, sui quarant’anni, entrò nell’atrio. Quell’uomo vestiva in grigio.
— È lui! — bisbigliò Mirna piantandomi le unghie nel dorso della mano.
— Che piano? — domandò il lift.
— Ultimo, — risposi.
L’ascensore partì. Mi chinai su Mirna e le chiesi: — Non immaginate neppure perché vi segue?
— Ricatto forse, — bisbigliò Mirna torcendosi i polsi. — Debbono aver saputo dei miei rapporti con gli agenti sovietici... — S’interruppe per vedere la mia reazione.
— Eh? — esclamai io.
— Oh, anche voi avete paura! Ivan Nicowsky mi aveva messo in guardia, prima di partire per Mosca...
— Tacete, — le imposi vedendo che il ragazzo ci osservava.
Restammo per qualche tempo in silenzio, lei abbandonata sopra di me, il respiro grosso, il petto agitato. Infine lo ascensore si fermò. La portiera scorrevole si riaprì.
Uscii tirandomi dietro la ragazza, che ora appariva atterrita. Il corridoio era deserto. Sopra di noi dovevano esserci le terrazze. Sentivo che stavo cacciandomi in un pasticcio, ma Mirna mi piaceva terribilmente. E poi aveva bisogno di protezione!
Spinsi la ragazza nel vano di una finestra. Una donna sbucò da una stanza, ci passò vicino. Vedendoci stretti l’una all’altro ebbe un sorriso. I suoi passi si dileguarono ben presto. Sentii il cuore di Mirna palpitarmi precipitosamente contro il petto. Avevo il suo corpo fresco e nervoso sotto le mie mani: la sua boccuccia rossa, quasi sanguinante, mi stava a un palmo dal naso – quella boccuccia deliziosa che avevo notata subito dopo le gambe e che mi aveva messo i brividi addosso.
Senza dir nulla la baciai. Lei corrispose. Un fremito la percorse tutta. Restammo uniti a lungo. Percepii il sapore dolce delle sue labbra. Sotto di noi l’arteria cittadina brulicava di autoveicoli.
— Non mi rendo conto di quanto mi hai detto — mormorai.
— Oh, portami via, portami via, Keogh! — ansimò Mirna sulla mia bocca. — Ti amo, credimi! Ti amo! L’ho sentito subito appena ti ho visto...
— Un momento, piccola. Che cosa ti succede esattamente, maledizione? Chi ti ha messo in contatto con quel tale russo di cui mi hai parlato poco fa? Ma, santa ragazza, non sai che stai giocando col fuoco? Io non so niente di politica, né voglio saperne, ma al Governo non approverebbero certamente quello che tu stai facendo... Sono sempre un cittadino americano, capisci?
Esitai.
Ora mi pentivo di averla fermata... Ma no, che stavo dicendo? Quella ragazza mi aveva stregato, mi aveva messo il fuoco nelle vene... No, non potevo pentirmi di quello che lei mi aveva dato in quei pochi minuti; non avrei saputo dimenticare il sapore delle sue labbra... Cercai ancora quel sapore, ripetutamente.
Mirna si abbandonò a me, mentre nei suoi occhi blu-notte appariva un velo di lacrime.
Mi trovai commosso.
In quel momento mi accorsi che la lancetta dell’indicatore dell’ascensore, che potevo distinguere benissimo in fondo al corridoio, si fermava al nostro piano.
Anche Mirna, seguendo il mio sguardo, la vide.
— Fuggiamo, — mormorò.
— Aspetta, — dissi.
La portiera dell’ascensore si aprì. Ne uscì un uomo in grigio, lo stesso che avevamo visto nell’androne. I miei nervi si tesero.
— Sì, è lui! — ansimò Mirna stringendosi a me.
L’uomo si guardò attorno, poi si diresse lentamente verso di noi, con le grosse mani penzoloni, inerti; aveva il naso grosso, le labbra tumide, l’andatura un po’ dinoccolala, come certi marinai.
Non seppi decidere nulla sul momento, ma misi di lato la ragazza.
L’altro mi si fermò di fronte. Era ben piantato, ma dovetti ammettere che aveva uria faccia di brav’uomo.
Mirna emise un grido e fuggì verso il piano superiore.
— Fermiamola! — urlò l’uomo.
Spiccò la corsa per raggiungere Mirna. Io gli feci uno sgambetto, e lui stramazzò sul pavimento imprecando.
— Siete un idiota! — sbraitò. — Quella ragazza sta per suicidarsi, capite?
— Che dite? — ruggii afferrandolo per un braccio.
— Ma non la conoscete?
— Mai vista prima d’oggi. È la figlia del banchiere Graves, no? Così almeno mi ha detto lei.
— Sì, e vi ha detto di essere in rapporto coi sovietici, vero?
— Infatti. Che vuol dire?
— Che è pazza. Schizofrenica. Graves mi ha dato l’incarico di sorvegliarla giorno e notte...
— Voi chi siete?
— Un investigatore privato... Ma presto, non perdiamo tempo!
Restai immobile un lungo istante nella mia incredulità, intanto che l’altro infilava le scale che portavano sulle terrazze del grattacielo. Lo raggiunsi in tempo per vedere che si portava una mano sugli occhi. A dieci metri da lui, qualcosa scomparve oltre il parapetto. Poi un grido lacerante mi gelò il sangue.
Quando entrambi ci affacciammo al parapetto, una folla si era raccolta laggiù, in strada, attorno a qualcosa.

  

Misfatto indigesto al Bulldog - La prima avventura di Grogghino, di Roberto Roganti


Un’auto scorre lenta sull’asfalto, ancora fresco della notte appena passata. Il silenzio del mattino si posa su un ristorante chiuso, che la sera precedente aveva ospitato una serata lunga e faticosa. I segni della fatica sono ancora nell’aria: odore di cucina, sedie accostate male, piatti e bicchieri impilati dietro il bancone.

Eppure, fuori dal locale, qualcosa non torna. C’è un via vai continuo di persone che entrano ed escono, ma questa volta nessuno ha fame. Nessuno è venuto per mangiare. Nei bagni del piano di sotto, nascosto alla vista dei clienti, è accaduto qualcosa di terribile: un omicidio efferato. Un morto.

Con queste immagini si apre Misfatto indigesto al Bulldog, il romanzo di Roberto Roganti che introduce il personaggio di Grogghino, impegnato nel suo primo caso. È una storia che inizia in un luogo familiare, un ristorante, e si trasforma in uno scenario di indagine.

L’autore accompagna il lettore in questo contrasto: da un lato l’apparenza normale della vita quotidiana, con i suoi ritmi, le sue abitudini, dall’altro l’irruzione improvvisa della violenza, che spezza la routine e costringe tutti a guardare sotto la superficie. La scena è semplice, ma potente: il movimento dell’auto, il locale chiuso, le persone che accorrono, la scoperta del cadavere nei bagni.

Grogghino viene chiamato a risolvere il mistero. Chi è la vittima? Perché è stato uccisa? Come può un delitto così brutale verificarsi in un posto dove poche ore prima si rideva e si brindava? Il ristorante, luogo di socialità, diventa il teatro di un crimine che nessuno avrebbe potuto immaginare.

La scrittura è attenta a ogni dettaglio, guida il lettore attraverso la tensione della scoperta e la curiosità di capire chi sia il colpevole. L’indagine comincia tra tavoli e corridoi che sembravano anonimi, ma che adesso nascondono segreti e domande. Il protagonista, Grogghino, si muove in questo spazio con determinazione, cercando la verità dentro un ambiente che, fino alla notte prima, era solo un ristorante come tanti.

Misfatto indigesto al Bulldog è un romanzo pensato per chi ama i gialli, per chi è attratto dalle storie che si sviluppano a partire da un dettaglio inaspettato e portano il lettore a indagare insieme al protagonista. La forza del racconto sta proprio nella sua capacità di trasformare la normalità in mistero, senza effetti speciali, restando fedele a una narrazione realistica.

Il primo caso di Grogghino invita a riflettere su quanto poco conosciamo davvero i luoghi e le persone intorno a noi. Un ristorante può essere molto più di un semplice locale: può diventare il cuore di una storia complessa, un enigma da risolvere, un punto di partenza per scoprire verità nascoste.

Con Misfatto indigesto al Bulldog, Roberto Roganti ci offre un giallo che comincia in silenzio e cresce pagina dopo pagina, accompagnando il lettore alla scoperta di un delitto e della sua risoluzione. Un romanzo che unisce la familiarità della vita quotidiana alla tensione di un caso poliziesco, senza mai perdere il contatto con la realtà.

Link per saperne di più


Why? - Onorata società/Un letto caldo, 1971


 Gruppo di Pisa, attivo nei locali toscani, soprattutto in Versilia dal 1966 al 1974. Lo stile del loro unico 45 giri si avvicina ai New Trolls del periodo 1969/70, con testi in italiano. La bella copertina contiene, tra le altre, le caricature dei quattro componenti del gruppo.

Il 45 giri originale è rarissimo ed è stato ristampato in una tiratura di sole 30 copie numerate nel 2017, anche questa molto difficile da trovare.


domenica 2 novembre 2025

Antonella Anedda: In una stessa terra




Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell’ombra della sera
per la sera che di colpo crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta a una ringhiera
per l’attesa marina – senza grido – infinita.
Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta
- da brughiera -
sulla terra del viale.
Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.

 

venerdì 31 ottobre 2025

Nargene B. Lyon: Le bambole segrete

 



Per anni avevo provveduto ai miei cinque figli da sola. Ora mi ero risposata con David, un vedovo, e mi sentivo un po’ a disagio nella sua casa. Cercare di sistemarci lì era una sorta di sfida sia per me sia per la mia famiglia, di cui facevano parte anche le tre figlie ormai cresciute di David.
Si stava approssimando il mese di dicembre e il pensiero delle festività mi rendeva apprensiva. Nessuno dei miei figli si sarebbe sentito a casa propria per Natale e io volevo che le figlie di David sentissero il mio affetto e sapessero che ero felice di essere parte della loro famiglia.
Quando ci eravamo sposati, in settembre, avevo cominciato a perlustrare e a riorganizzare la casa, in modo da sapere dove si trovavano le cose e per riuscire a sentirmi un po’ più a casa mia. Un giorno avevo trovato una vecchia scatola da scarpe coperta di polvere. All’interno di essa, avvolti in carta di giornale, c’erano i pezzi smontati di tre bambole di porcellana. Sapevo che alla prima moglie di David, Lois, piaceva lavorare con la ceramica. Sua nuora una volta aveva anche detto che Lois aveva cominciato a creare delle bambole di porcellana per le proprie figlie, ma che non era mai riuscita a finirle. Forse avrei potuto portare io il lavoro a compimento e darle alle ragazze come regalo di Natale non solo da parte mia ma anche da parte della loro amata mamma? Prima di tutto portai le bambole a Linda, un’esperta di bambole che mi era stata raccomandata da un’amica. Rimase stupefatta dalla delicatezza di quegli oggetti e accettò di finirle dipingendo e cuocendo i vari pezzi, per poi assemblare le bambole e cucire loro degli abiti. Io scelsi i colori dei vestiti in base alla personalità delle tre figlie di David. Le tre bambole avrebbero avuto i capelli castani, ma di tre diverse tonalità.
Quando rientrai a casa il telefono stava suonando. Era Linda, la sua voce tremava per l’emozione: “Sapevi che queste bambole hanno una dedica?” mi chiese.
“Come una dedica?”.
“Su ognuna di esse c’è un’iscrizione: ‘Alla mia cara Kathy’, ‘Alla mia cara Heidi’, ‘Alla mia cara Lorelee’. Ognuna di esse è firmata: ‘Con amore, mamma, 1970’”.
Come se fosse la mano di Lois dal passato, pensai. La dedica rendeva le bambole ancora più preziose e io non vedevo l’ora di darle alle figlie di David. Mi resi conto che Lois aveva modellato le varie parti delle bambole quattordici anni prima, quando la più piccola delle sue figlie, Lorelee, aveva solo cinque anni. Infine, le bambole furono pronte. Avevo scritto un biglietto a ognuna delle ragazze spiegando perché quelle bambole erano così importanti. Sottolineai il fatto che il dono veniva fatto loro da due madri, che le amavano tanto, la loro madre e io. Comprai delle scatole da regalo, aggiunsi il biglietto e incartai tutto quanto con grande cura. Ero più emozionata per quelle tre bambole che per tutto il resto dei regali.
Il giorno dopo chiamammo tutti a raccolta per distribuire i doni. Senza dire una parola David e io consegnammo a ognuna delle ragazze il proprio pacchetto. Iniziarono a scartarli. Silenzio, poi l’emozione, i sospiri e poi uno scorrere di lacrime. Era come se anche Lois fosse lì.
Lorelee mi gettò le braccia al collo. Più tardi Heidi confidò che la bambola era stata per lei una conferma che io facevo ormai parte della famiglia. Kathy scrisse un biglietto in cui espresse tutta la sua commozione e quanto quella bambola avrebbe sempre significato per lei. E attraverso questo dono d’amore da parte di Lois e me, mi sentii finalmente accettata e provai il conforto di sentirmi veramente parte della famiglia di David.

 

Luciano De Crescenzo - Il Dubbio

PRIMO CAPITOLO




Le grandi domande

«Credi in Dio?».
«Certo che ci credo».
«Ma ci credi proprio per davvero?».
«Per davvero».
«E non hai mai dubitato, nemmeno una volta, per un attimo solo?».
«In che senso?».
«Nel senso che ti è venuto, non richiesto, un pensierino del tipo: "E se
poi non c'è nulla? E se tutto si conclude con la morte, e chi si è visto, si è
visto?"».
«Oddio, certo che mi è capitato, come a tutti credo. Però uno poi ci
ragiona su, e si riconvince di nuovo».
«Oppure dubita ancora di più. Posso farti una domanda alquanto
difficile?».
«Falla pure».
«Quanti anni hai?».
«Venti, lo sai benissimo».
«E quanti anni ancora credi di poter vivere?».
«Ma che razza di domanda è questa? Cosa vuoi che ne sappia! Ne potrei
vivere ottanta come nessuno. Non vedo, però, che c'entri tutto questo con
l'esistenza di Dio».
«C'entra, c'entra. Dimmi piuttosto: quanto tempo è necessario perché
passino ottant'anni?».
«Beh, ovviamente ottant'anni».
«Ne sei proprio sicuro?».
«O bella: ottant'anni non possono che durare ottant'anni. Mi sembra
ovvio».
«E invece non è ovvio proprio per niente: ottant'anni a volte possono
durare pochissimo, altre volte non finire mai. Come vedi il concetto di
tempo è altrettanto imprecisabile del concetto di Dio. La pretesa di capire
il tempo è di un'ambizione sovrumana: un po' come la pretesa di capire
Dio».
«Ma che vuol dire capire il tempo?».
«Vuol dire capire il Prima, l'Adesso e il Dopo».
«Fammi un esempio del Prima».
«Dov'eri prima di nascere?».
«Non lo so».
«E dove andrai dopo morto?».
«Io spero in paradiso».
«E com'è che sei così sicuro sul Dopo e non mi sai dire niente sul
Prima?».
«E l'Adesso?».
«Quello poi è il più difficile di tutti!».
Questi erano i dialoghi, parola più parola meno, che facevamo da
ragazzi, dopo aver mangiato una pizza in trattoria e bevuto una birra, e
questi sono i dialoghi che facciamo adesso, tra amici, in un ristorante di
lusso, mangiando spaghetti all'astice e bevendo vini pregiati. Sono
cambiate solo due cose: il costo della cena, che è aumentato, e il numero
degli anni che ci restano da vivere, che è diminuito. Le grandi domande,
invece, sono sempre le stesse e come farfalle notturne continuano a volarci
intorno, in particolar modo la sera, dopo cena. Invano cerchi di cacciarle
via: si allontanano solo di poco per poi riaffacciarsi, silenziose e insistenti
più di prima.
In questo libriccino, di grandi domande ne abbiamo solo tre a cui
trovare, se non proprio una risposta, quanto meno un tentativo di risposta.
Sono domande che hanno affascinato da sempre gli uomini di pensiero.
Domanda numero uno: è il Caso o il Destino a governare il mondo?
Domanda numero due: che cos'è il Tempo?
Domanda numero tre: che cos'è lo Spazio?
Come vedete, sono tutti temi fra loro adiacenti, nel senso che ciascuno di
essi, prima o poi, finisce con l'invadere il campo dell'altro.
Anni fa ho visto un film di Peter Weir, molto suggestivo, intitolato
Picnic a Hanging Rock, dove veniva raccontato lo sconfinamento di tre
studentesse in un mondo con dimensioni diverse. Un liceo australiano
decide un bel giorno di fare una gita scolastica nei pressi di un
promontorio solitario chiamato Hanging Rock. Alcune ragazze si
allontanano e, dopo essersi infilate in un anfratto oscuro, scompaiono per
sempre. Una delle insegnanti si metterà alla loro ricerca e farà la stessa
fine. Inutilmente la gente del paese le cercherà per giorni e giorni tra i
crepacci e la vegetazione del posto: di loro si perderà ogni traccia, perfino i
corpi non verranno più trovati. Dopo qualche giorno, però, ecco
ricomparire all'improvviso una delle ragazze: è illesa, un po' strattonata
magari, ma senza alcun segno di violenza addosso. Tutti le si fanno
intorno, tutti le chiedono cosa sia successo, ma lei non risponde, o per
meglio dire, non riesce a raccontare niente di quello che le è accaduto.
L'ipotesi è che le quattro donne abbiano varcato la soglia di un mondo
diverso; un mondo senza spazio né tempo, e con dimensioni a noi
sconosciute. Ma perché l'unica superstite non ce lo descrive? Per la
semplice ragione che non trova le parole per farlo. D'altra parte, provate
voi a immaginare di dover raccontare a un uomo, nato cieco, che cosa sia il
verde o il giallo, e quali differenze ci siano tra questi due colori. È
praticamente impossibile.
Eppure questi mondi diversi potrebbero esistere sul serio: io me li
immagino come immensi buchi neri che ci attendono avidi e ben nascosti
dietro gli angoli della nostra esistenza. Con questo, per amor di Dio, non
voglio dire che non credo nell'aldilà cristiano, ma solo che mi permetto di
dubitare che l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso siano poi così elementari
e coreografici come Dante Alighieri e Gustavo Doré ci hanno voluto far
credere. Quello che è certo è che sono scollegati da noi. Come dire, non
hanno il telefono, non hanno nessuna possibilità di farci sapere qualcosa.
Gli antichi sostenevano che le anime dei defunti, per ritornare sulla
Terra, erano costrette a bere le acque del Lete, il fiume dell'oblio; sarà
anche per questo che non riesco a raccontare nulla del mio Prima, e che
posso solo farneticare sul mio Dopo. In compenso ho delle vaghe
sensazioni e a queste mi aggrappo, in mancanza di una Fede degna di
questo nome.

Scuola di polizia

 



Stati Uniti, 1984 / Neal lsrael e Pat Proft

Uno stravagante bando di concorso emesso dalla sindachessa di una cittadina
americana (senza alcun limite di colore, sesso, altezza e peso chiunque può essere ammesso alla locale Accademia di polizia, per frequentarvi un corso di 14 settimane) porta un di creta numero di aspiranti allievi a presentarsi davanti al
bonario capitano Lassard (George Gaynes). 



Un tizio che va matto per le uniformi, un ex fioraio di colore, un irrequieto figlio di papà, disoccupati e tipi eccentrici sono quindi sottoposti a faticosi allenamenti dal
cinico e ferreo tenente Harris (G.W. Bailey), che spera così di farli rinunciare al più presto. Gli allievi però non demordono e alla fine riusciranno anche a farsi onore avendo la meglio su un gruppo di teppisti. 



Questa, in breve, la trama di Scuola di polizia (Police Academy), un film
strampalato diretto nel 1984 da Hugh Wilson su una sceneggiatura di Neal Israele Pat Proft. Un filmetto senza pretese, a tratti decisamente goliardico, eppure ricco di trovatine e gag, tanto che ottiene un discreto successo presso il grande pubblico,
dando origine a una vera e propria serie giunta al sesto titolo nel 1989 alternando momenti un po' scontati e ripetitivi a scene divertenti anche se sempre un po' goliardiche.