lunedì 3 novembre 2025

Sally Ogden (alias Franco Enna): Kate



Mi camminava davanti, e aveva una gonna a quadri neri su verde, una camicetta grigio perla e un corpo magnifico, agile. I suoi capelli neri, ondosi, erano lì, a due passi da me, sul collo nervoso. Procedendo diagonalmente a lei per un breve tratto, avevo potuto scoprire il suo profilo delizioso, con due occhi di sirena e una boccuccia tirabaci. (Allora non mi ero dichiarato a Celia, per questo mi lasciai agganciare dal desiderio di un’avventura).
Le diedi il primo nome che mi salì alle labbra: Katharine. Subito dopo la chiamai più confidenzialmente Kate, ma sempre tra me, poiché la ragazza non si era neppure accorta che la seguivo, o che facevo la sua stessa strada. Quella sarebbe stata la mia prima avventura a San Francisco, e il pensiero mi elettrizzava. Da tre giorni la farraginosa città californiana mi stava ossessionando. Era la prima volta che vi mettevo piede.
Kate mi saltellava davanti come un uccellino. C’era il sole, era primavera inoltrata, faceva caldo e avevo poco più di vent’anni (quasi venticinque, per essere esatti!).
Riuscii a doppiarla col fiato in gola, dopo un buon miglio. La guardai. Lei mi guardò. Le sorrisi. Lei mi sorrise. Aveva gli occhi blu-notte e un seno gonfio, titillante, sotto la camicetta trasparente.
— Salve, Kate! — mi trovai a dire.
— Mi conoscete? — domandò la ragazza.
Allibii. Per un istante fui sul punto di risponderle negativamente, poi decisi di recitare la commedia e feci un cenno affermativo.
— Ma certo! — risposi. — Non ci siamo visti a Sacramento il mese scorso?
— Eravate voi? — mi chiese Kate raggiante, e si guardò attorno come preoccupata, ansiosa.
Annuii ancora.
Lei continuò, intanto che mi infilava la sinistra sotto il braccio: — Che cattivo siete stato! Siete scomparso all’improvviso, senza nemmeno avermi detto il vostro nome!
«Ah, ah!» dissi tra me, «tu giuochi una carta, piccina mia! Tu non sei Kate, tu non mi hai mai visto prima d’oggi, e io non sono mai stato a Sacramento e sto inventando ogni cosa».
La guardai sorridendo, mentre il dubbio di essere incappato in una furbona mi gracchiava nel cranio. Era decisamente deliziosa, e aveva un’aria innocente che sconvolgeva tutti i miei sospetti. Una ombra strana, come di tristezza, le oscurava la fronte.
— Mi chiamo Marton, — dissi. — Keogh Marton, e sono giornalista.
Lei mi guardò di sfuggita, poi tornò a osservarsi attorno mentre la sua boccuccia si faceva rigida. Stringendomi un braccio sussurrò in tono supplichevole: — Sorridetemi, vi prego! Subito! Sono in pericolo...
Risi forte, naturalmente perché lei me l’aveva chiesto, poi le domandai sottovoce
— Spiegatevi meglio, e state tranquilla.
— Non vi conosco. Lo avete capito, vero? — disse lei con voce incerta. — Mi chiamo Mirna Graves. Sono la figlia di Louis Graves, il banchiere. C’è un uomo in grigio che mi segue... No, non voltatevi! Non subito, almeno.
— Chi è? — domandai.
— Non lo so. Sono due giorni che mi segue. Lui non sa che me ne sono accorta...
— Ma perché vi segue?
— Non so nemmeno questo, ma ho paura!
— Ne avete parlato con vostro padre? — domandai con interesse.
Mirna graffiò la sua borsetta nera di paglia e scosse la testa.
— No — rispose poi, — non andiamo molto d’accordo lui ed io. E poi è fuori città.
— Dov’è andato?
— Non so, per affari. O con qualche donna. — Si asciugò in fretta una lacrima e soggiunse: — Pensa più alle sue donne che a me, lui!
— E vostra madre?
— È morta, — rispose Mirna in un soffio.
— Oh! — feci, e non seppi dire altro lì per lì. Ne approfittai per dare un’occhiata alle mie spalle. Le facce che vidi mi parvero insignificanti. Non un solo uomo in grigio era dietro di noi.
— Dove abitate? — domandai.
— 416, Malvoisin Street.
— Ma che cosa temete che possano farvi? — insistetti.
Mirna ebbe una smorfia di disperazione.
— Ma non so, non so! Ho paura, ecco!
— Temete che possano rapirvi?
— È probabile. O forse anche...
— Che cosa?
— ... uccidermi, ecco! Ma non mi fate altre domande, vi prego.
— Venite, — dissi, — entriamo in questo portone. — E la trascinai nell’atrio di un palazzo di venti piani.
— Dove mi portate? — domandò Mirna con uno scatto di diffidenza.
— Voglio vedere se quell’uomo ci segue, — risposi. — Abbiate fiducia in me, volete?
Lei si strinse al mio fianco. La sentii tenera e trepidante contro di me. Un desiderio pazzo di baciarla mi colse. In quel momento la portiera scorrevole di uno degli ascensori stava aprendosi. C’era un lift dai capelli rossi. I tre uomini che lui aveva accompagnato a pianterreno se ne andarono.
Spinsi la ragazza nell’ascensore e la seguii. La portiera stava chiudendosi, quando un nomo alto, sui quarant’anni, entrò nell’atrio. Quell’uomo vestiva in grigio.
— È lui! — bisbigliò Mirna piantandomi le unghie nel dorso della mano.
— Che piano? — domandò il lift.
— Ultimo, — risposi.
L’ascensore partì. Mi chinai su Mirna e le chiesi: — Non immaginate neppure perché vi segue?
— Ricatto forse, — bisbigliò Mirna torcendosi i polsi. — Debbono aver saputo dei miei rapporti con gli agenti sovietici... — S’interruppe per vedere la mia reazione.
— Eh? — esclamai io.
— Oh, anche voi avete paura! Ivan Nicowsky mi aveva messo in guardia, prima di partire per Mosca...
— Tacete, — le imposi vedendo che il ragazzo ci osservava.
Restammo per qualche tempo in silenzio, lei abbandonata sopra di me, il respiro grosso, il petto agitato. Infine lo ascensore si fermò. La portiera scorrevole si riaprì.
Uscii tirandomi dietro la ragazza, che ora appariva atterrita. Il corridoio era deserto. Sopra di noi dovevano esserci le terrazze. Sentivo che stavo cacciandomi in un pasticcio, ma Mirna mi piaceva terribilmente. E poi aveva bisogno di protezione!
Spinsi la ragazza nel vano di una finestra. Una donna sbucò da una stanza, ci passò vicino. Vedendoci stretti l’una all’altro ebbe un sorriso. I suoi passi si dileguarono ben presto. Sentii il cuore di Mirna palpitarmi precipitosamente contro il petto. Avevo il suo corpo fresco e nervoso sotto le mie mani: la sua boccuccia rossa, quasi sanguinante, mi stava a un palmo dal naso – quella boccuccia deliziosa che avevo notata subito dopo le gambe e che mi aveva messo i brividi addosso.
Senza dir nulla la baciai. Lei corrispose. Un fremito la percorse tutta. Restammo uniti a lungo. Percepii il sapore dolce delle sue labbra. Sotto di noi l’arteria cittadina brulicava di autoveicoli.
— Non mi rendo conto di quanto mi hai detto — mormorai.
— Oh, portami via, portami via, Keogh! — ansimò Mirna sulla mia bocca. — Ti amo, credimi! Ti amo! L’ho sentito subito appena ti ho visto...
— Un momento, piccola. Che cosa ti succede esattamente, maledizione? Chi ti ha messo in contatto con quel tale russo di cui mi hai parlato poco fa? Ma, santa ragazza, non sai che stai giocando col fuoco? Io non so niente di politica, né voglio saperne, ma al Governo non approverebbero certamente quello che tu stai facendo... Sono sempre un cittadino americano, capisci?
Esitai.
Ora mi pentivo di averla fermata... Ma no, che stavo dicendo? Quella ragazza mi aveva stregato, mi aveva messo il fuoco nelle vene... No, non potevo pentirmi di quello che lei mi aveva dato in quei pochi minuti; non avrei saputo dimenticare il sapore delle sue labbra... Cercai ancora quel sapore, ripetutamente.
Mirna si abbandonò a me, mentre nei suoi occhi blu-notte appariva un velo di lacrime.
Mi trovai commosso.
In quel momento mi accorsi che la lancetta dell’indicatore dell’ascensore, che potevo distinguere benissimo in fondo al corridoio, si fermava al nostro piano.
Anche Mirna, seguendo il mio sguardo, la vide.
— Fuggiamo, — mormorò.
— Aspetta, — dissi.
La portiera dell’ascensore si aprì. Ne uscì un uomo in grigio, lo stesso che avevamo visto nell’androne. I miei nervi si tesero.
— Sì, è lui! — ansimò Mirna stringendosi a me.
L’uomo si guardò attorno, poi si diresse lentamente verso di noi, con le grosse mani penzoloni, inerti; aveva il naso grosso, le labbra tumide, l’andatura un po’ dinoccolala, come certi marinai.
Non seppi decidere nulla sul momento, ma misi di lato la ragazza.
L’altro mi si fermò di fronte. Era ben piantato, ma dovetti ammettere che aveva uria faccia di brav’uomo.
Mirna emise un grido e fuggì verso il piano superiore.
— Fermiamola! — urlò l’uomo.
Spiccò la corsa per raggiungere Mirna. Io gli feci uno sgambetto, e lui stramazzò sul pavimento imprecando.
— Siete un idiota! — sbraitò. — Quella ragazza sta per suicidarsi, capite?
— Che dite? — ruggii afferrandolo per un braccio.
— Ma non la conoscete?
— Mai vista prima d’oggi. È la figlia del banchiere Graves, no? Così almeno mi ha detto lei.
— Sì, e vi ha detto di essere in rapporto coi sovietici, vero?
— Infatti. Che vuol dire?
— Che è pazza. Schizofrenica. Graves mi ha dato l’incarico di sorvegliarla giorno e notte...
— Voi chi siete?
— Un investigatore privato... Ma presto, non perdiamo tempo!
Restai immobile un lungo istante nella mia incredulità, intanto che l’altro infilava le scale che portavano sulle terrazze del grattacielo. Lo raggiunsi in tempo per vedere che si portava una mano sugli occhi. A dieci metri da lui, qualcosa scomparve oltre il parapetto. Poi un grido lacerante mi gelò il sangue.
Quando entrambi ci affacciammo al parapetto, una folla si era raccolta laggiù, in strada, attorno a qualcosa.

  

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