venerdì 21 novembre 2025

Olivia Pratt: Il bacio

 



In “My Fair Lady”, l’arrogante ma affascinante Henry Higgins cerca di insegnare a Eliza un’importante lezione quando le dice: “Il più grande segreto, Eliza... è di avere gli stessi modi nei confronti di ogni anima umana; in breve, comportati come se tu fossi in paradiso, dove non ci sono vetture di terza classe, e ogni anima è altrettanto buona di qualunque altra”. Per la maggior parte di noi, è facile amare coloro per i quali nutriamo ammirazione e coloro che ricambiano il nostro affetto, ma la prova più difficile nella vita è quella di doversi prendere cura delle persone che in qualche modo sono difficili da amare e che non danno nulla in cambio, gli estranei, quelli che hanno meno potere, i poveri, le persone poco importanti. Ho imparato questa lezione un Natale, molti anni fa, quando vivevamo in California.
Sono stata per parecchi anni a capo di un’organizzazione femminile presso la mia parrocchia. Parte del mio compito consisteva nel seguire i malati, gli anziani e fornire la mia opera di assistenza a chi si trovasse in uno stato di bisogno.
Mi era stato detto che c’era una donna nella nostra zona che non era in grado di recarsi in chiesa a causa dei suoi problemi di salute e che aveva bisogno di assistenza. Le altre donne della chiesa si unirono a me per farle visita e per vedere cosa potessimo fare per aiutarla. Margaret era una donna minuta di origine danese; quasi cieca a causa del diabete, soffriva di una grave forma di artrite. Viveva sola e aveva due figli grandi che difficilmente andavano a trovarla. Ci rendemmo subito conto che si trattava di una donna molto orgogliosa e indipendente, e che chiederci aiuto costituiva per lei un grosso disagio e un profondo imbarazzo. Per anni aveva gestito da sola un’attività commerciale, un negozio di abiti molto bello, e nel suo armadio erano ancora appesi, conservati in custodie di plastica, alcuni deimeravigliosi abiti da cerimonia che vendeva. Nonostante il suo atteggiamento freddo e formale, era evidente che aveva estremamente bisogno della nostra assistenza.
Passammo da lei molte giornate dell’anno successivo. Arrivavamo la mattina e pulivamo l’appartamento; poi preparavamo il pranzo e cercavamo anche di fare in modo che restasse qualche cosa per la cena. Lei ci ringraziava molto educatamente, senza mai mostrare una reale emozione; capivamo che con il passare degli anni la solitudine aveva fatto nascere in lei quell’amarezza e che aveva imparato a prendere le distanze dal resto del mondo. Cercavamo in tutti i modi di mostrarle il nostro affetto, ma ce ne andavamo sempre chiedendoci se lei riuscisse almeno ad apprezzare le cose che avevamo fatto.
Passò il tempo, la salute di Margaret peggiorò e infine venne ricoverata in una casa di riposo. Non la vedevo da qualche mese e mi sentivo un po’ in colpa per questo. Era dicembre e mi ritrovai coinvolta nel pieno dei preparativi per il Natale: feste, regali, cartoline di auguri, decorazioni. Le mie sorelle e io eravamo state invitate a un pranzo di Natale, un evento che attendevo con emozione ogni anno. Era un’occasione mondana, a Beverly Hills, ed era divertente vestirsi elegantemente e chiacchierare con alcune delle persone famose che partecipavano all’evento. Tuttavia, quel particolare dicembre fui colta dalla fastidiosa sensazione che anziché recarmi al pranzo sarei dovuta andare a far visita a Margaret. Mentre mi avviavo dal parcheggio verso la grigia casa di riposo, continuavo a chiedermi cosa mi avesse imposto di rinunciare a un’occasione tanto ambita per far visita a una donna che non conoscevo veramente e per la quale non provavo un particolare affetto. Ero piena di risentimento e mi sentivo un po’ come una martire. Certo, non stavo compiendo questo atto di gentilezza con lo spirito adeguato.
Mia madre aveva trascorso gli ultimi cinque anni della propria vita in una casa di riposo, devastata da un’artrite che la costringeva quasi costantemente a letto. Passavo molte ore con lei; ora ritrovavo gli odori e i suoni che mi erano tanto familiari in un’altra casa di riposo, e questo mi riportò alla memoria ricordi dolci e amari. Ero in piedi accanto al letto di Margaret e osservavo il suo volto che mi ricordava molto mia madre, che era per metà danese, gli stessi tratti e gli stessi occhi azzurri. Mentre ripensavo a mia madre, mi rammentai di quello che ero solita fare quando andavo a farle visita e chiesi a Margaret se mi permetteva di metterle della crema sulle mani.
“Oh sì, per favore”, rispose piano. Cominciai a massaggiare le mani sottili e nodose, così simili a quelle di mia madre. Poi le misi un po’ di crema sul viso e sul collo e le massaggiai un po’ la schiena. Presi una spazzola e le pettinai i capelli bianchi, cercando di darle un aspetto più curato. Lei iniziò a rilassarsi e sembrava contenta delle attenzioni e dell’intimità di quei gesti, cosa che non credevo potesse accadere a questa donna così orgogliosa e chiusa in sé.
Improvvisamente, mentre stavo massaggiandole con la crema le braccia, lei mi prese la mano e mi guardò con i suoi vecchi occhi tristi. “Dammi un bacio”, sussurrò. “Dammi un bacio”. Un po’ sorpresa, le sorrisi, mi piegai verso di lei e la baciai lievemente. Allora mi disse: “Oh, ancora, per favore”. Le diedi un bacio sull’altra guancia e mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi. Era come se i miei semplici baci avessero dissolto gli strati di gelo, di durezza esteriore che lei aveva eretto attorno a sé in tutti quegli anni di solitudine. Mi ritrovai a baciarla ancora su tutto il viso e insieme cominciammo a piangere. L’abbracciai con calore e lei si avvinghiò disperatamente a me, mentre la rassicuravo del fatto che sarei tornata presto. Mentre mi voltavo per andarmene, compresi. Questa anziana donna, che era stata abbandonata dai propri figli, aveva un enorme bisogno di contatto umano, in modo così intenso da chiedere a una semplice conoscente un gesto d’affetto che potesse nutrire la sua anima affamata d’amore. In quel momento mi sentii onorata di essere stata io a soddisfare quella richiesta. Uscendo dall’ospedale mi sembrava di camminare sulle nuvole e mi sentivo trasformata. La gioia pura del più autentico spirito natalizio aveva riempito il mio cuore e la mia anima come non mi era mai accaduto prima. Ora sapevo perché avevo deciso di rinunciare al pranzo quel giorno. C’erano persone molto più importanti con le quali trascorrere il tempo, che mai sarebbe stato possibile trovare in un ristorante di lusso pieno di celebrità. Non sapevo perché mi fossi sentita così spinta a fare quel gesto, ma forse dovevo compierlo per il mio bene.
Ricordai una storia che mi era stata raccontata, nella quale un oste che non aveva saputo trovare una camera per Maria e Giuseppe, la notte del primo Natale, disse in seguito a propria discolpa: “Cosa avrei potuto fare? La locanda era piena di gente e loro erano solo due, senza alcun servitore, solo un umile uomo e la moglie a cavallo di un asinello, pallida e abbattuta. Non li vidi di persona, furono i miei servitori a mandarli via; ma anche se li avessi visti io, come avrei fatto a capire? Forse che gli osti accolgono gli sbandati nelle nostre città da Beersheba a Dan, nel caso che Lui arrivasse? Dicono che c’era un segno, una splendente luce celeste, ma io non avevo tempo per le stelle, e che si udivano canti angelici nell’aria sulle colline. Ma come avrei potuto udirli in mezzo ai clamori di una locanda?”.
Fortunatamente per me, quel giorno, io lasciai da parte i clamori del mondo, e per un breve attimo potei accorgermi della luce nel cielo e potei udire le voci degli angeli. Il ricordo di quel bacio stampato sul dolce viso di una donna vecchia e triste, nutrito dalle nostre lacrime, arricchì ogni mio nuovo Natale di un tale amore per il genere umano che nemmeno credevo possibile. Avevo imparato che il dono di un cuore amorevole è il più grande regalo di Natale.
 

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