venerdì 10 ottobre 2025

Arturo Pérez-Reverte - Il Club Dumas

PRIMO CAPITOLO



Il lampo di luce proiettò la sagoma dell’impiccato sulla parete. Penzolava
immobile da una lampada al centro del salone e man mano che il fotografo gli si
muoveva attorno, facendo scattare l’otturatore, l’ombra provocata dal flash si
delineava via via su quadri, vetrine piene di porcellane, scaffali coperti di libri e
tende aperte su grandi finestre, dietro le quali cadeva la pioggia.
Il giudice istruttore era giovane. Aveva pochi capelli, scompigliati e ancora umidi,
come l’impermeabile che si era tenuto sulle spalle mentre dettava il rapporto al
segretario seduto sul divano, con la macchina da scrivere portatile appoggiata su
una sedia. Il ticchettio accompagnava la voce monotona del giudice e i commenti a
bassa voce dei poliziotti che si aggiravano nella stanza: «... In pigiama, con indosso
una vestaglia. Il cordone dell’indumento ha causato la morte per impiccagione. Il
cadavere ha le mani legate sulla parte anteriore del corpo con una cravatta. Il piede
sinistro porta ancora una pantofola, l’altro è nudo...».
Il giudice toccò il piede calzato del morto e il corpo cominciò lentamente a
ruotare, in fondo al teso cordone di seta che univa il collo all’ancoraggio della
lampada sul soffitto. Il movimento fu da sinistra a destra, e poi in senso inverso, con
un giro più breve, finché il cadavere non tornò di nuovo nella posizione originaria,
come un ago magnetizzato che recupera il nord dopo una breve oscillazione. Mentre
si scostava, il giudice si girò di fianco per schivare un poliziotto in uniforme che
cercava impronte digitali sotto il cadavere. C’era un vaso rotto sul pavimento, e un
volume aperto su una pagina sottolineata a matita rossa. Il libro era un vecchio
esemplare del Visconte di Bragelonne, un’edizione economica rilegata in tela.
Chinandosi sulla spalla dell’agente, il giudice dette uno sguardo al testo evidenziato:
«Mi hanno venduto» mormorò. «Si sa tutto!»
«Finalmente si sa tutto» ribatté Porthos, che non sapeva nulla.
Disse al segretario di prendere nota delle parole sottolineate, dette ordine di
mettere il libro agli atti, e andò a raggiungere un uomo alto, che fumava accanto al
davanzale di una finestra spalancata.
«Che ne pensa?» chiese quando gli fu accanto.
L’uomo alto aveva il distintivo della polizia appuntato su una tasca del giubbotto
di cuoio. Prima di rispondere, finì il mozzicone che teneva tra le dita e se lo gettò alle
spalle, fuori dalla finestra, senza guardare.
«Quando è roba bianca, ed è in bottiglia, di solito si tratta di latte» rispose alla
fine, criptico, ma non abbastanza perché il giudice non accennasse un sorriso; a
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differenza del poliziotto, lui osservava la strada dove continuava a piovere con
violenza. Qualcuno aprì una porta dall’altra parte della stanza, e la ventata gli
spruzzò gocce d’acqua sul viso.
«Chiudete quella porta» ordinò senza voltarsi. Poi si rivolse nuovamente al
poliziotto: «Ci sono omicidi che si mascherano da suicidi».
«E viceversa» sfumò tranquillamente l’altro.
«Che ne pensa delle mani e della cravatta?»
«A volte temono di pentirsi all’ultimo minuto... Altrimenti le avrebbe legate dietro
la schiena.»
«Questo non cambia nulla» ribatté il giudice. «Il cordone è sottile e resistente.
Una volta perso l’appoggio, neppure con le mani libere avrebbe avuto la minima
possibilità.»
«Tutto può essere. Con l’autopsia ne sapremo di più.»
Il giudice lanciò un’altra occhiata al cadavere. L’agente delle impronte digitali si
alzò con il libro in mano.
«È curioso il libro aperto, le frasi sottolineate...»
Il poliziotto alto si strinse nelle spalle.
«Io leggo poco» disse. «Ma questo Porthos non era uno di quei personaggi...?
Athos, Porthos, Aramis e d’Artagnan» contava con il pollice sulle dita di una mano, e
quando ebbe finito si fermò, pensieroso. «È buffo, mi sono sempre chiesto perché
vengono chiamati i tre moschettieri, se in realtà erano quattro.»

 

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