C'eravamo appena seduti a tavola, quel giorno, che subito s'incominciò a discutere dell'argomento...
«Oddio, io preferirei che Renzo andasse a stare a Torricella, per quei tre, quattro mesi» sospirò mamma riempiendo i piatti di mestoli di rigatoni fumanti, grondanti ragù.
«A Torricella è come se stesse a casa sua. Zia Coletta e zia Angiolina, figurati, sarebbero felici di ospitarlo».
«Bisogna vedere se le tue zie sono effettivamente in grado di assumersi un impegno del genere» obiettò papà, scettico. «Non vorrei, tra l'altro, che per loro fosse un onere eccessivamente gravoso: hanno la loro età, le vegliarde».
Alludeva a zia Coletta e zia Angiolina, le chiamava le tue zie, vegliarde, con un tono di degnazione, di vago sfottò. «Sono due querce, quelle» replicò mia madre piccata «ci arrivassi io a quella età, in buona salute come loro. Razza forte, quella dei De Lellis, razza abruzzese».
«L'ultima volta che le abbiamo viste, è stato nel luglio del '49, se non vado errato» la rimbeccò papà con quel suo modo di parlare ricercato, un po' ampolloso «a zia Angiolina, ricordo, si era riacutizzato il diabete, zia Coletta, invece, mi pare si fosse fratturata il femore a seguito di una caduta».
«Sono acciacchi dell'età, quelli» minimizzò mamma «e poi c'è Armandino, volendo. Per qualsiasi evenienza, Renzo può sempre appoggiarsi a lui».
Di tutti i vari parenti di mamma, questo tale Armandino era quello che papà meno sopportava.
«Buono quello» sogghignò «te lo raccomando».
«Perché, che hai da dirgli? È una cara persona, invece, uno stimato professionista, tra l'altro».
«Sì, veterinario in quel di Torricella... Su, non ha mai concluso nulla di buono nella vita, tuo cugino. Quello straccio di laurea, se l'è preso a più di quarant'anni, e solo grazie al fatto che era reduce di guerra. Diciamolo, è sempre stato uno scombinato, una capa fresca».
Quando si parlava di lui, il sarcasmo di papà si faceva sferzante.
«Sei ingiusto con lui, Giulio» protestò mamma «non dimenticarti che ha fatto la guerra, è stato due anni prigioniero in Africa Orientale... Senza dire poi della disgrazia che gli è capitata... Ah, quante ne ha patite, pover'uomo!».
«Sì, la disgrazia» commentò papà con un ghignetto ammiccante, la bocca piena di rigatoni. «Tutta una famiglia di matti, quella».
«Stai parlando di mio cugino carnale» s'inalberò a quel punto mamma, ferita nell'orgoglio, negli affetti familiari più profondi. Aveva le guance in fiamme. La discussione stava ormai degenerando: anche per quella volta non si sarebbe deciso niente.
Accadeva, questo, nell'agosto del 1955. Io e la mia famiglia stavamo per rimpatriare. Dopo vent'anni trascorsi a Tripoli, in Libia, tornavamo in Italia, lasciavamo per sempre l'ex colonia. Mio padre, direttore della locale Cassa di Risparmio, aveva chiesto e ottenuto il trasferimento a Napoli, sua città natale: era lì che, coi primi dell'anno, saremmo andati a stabilirci. C'era solo quel dannato inghippo della mia iscrizione all'Università a complicare le cose, a settembre scadevano i termini, bisognava che io fossi a Napoli prima di quella data. In poche parole, mi toccava partire da solo e con ben quattro mesi di anticipo.
A quel punto, perciò, si trattava semplicemente di decidere dov'era meglio che andassi a passare quei quattro dannati mesi, se a Napoli, come sembrava ovvio, dato che là ci stabilivamo, oppure a Torricella Peligna, anonimo paesotto di montagna, in Abruzzo, dove mia madre era nata e dove sarei potuto andare comodamente ospite delle fantomatiche zia Coletta e zia Angiolina. Be', a un paio di settimane dalla partenza, quei cacadubbi dei miei genitori non avevano ancora preso una decisione, erano ancora lì a discettare della faccenda. Quando poi i loro battibecchi pigliavano quella piega polemica, per non dire rissosa, mi calava addosso una noia mortale. A mio padre, tra l'altro, poco sconfinferava che andassi a Torricella. Nutriva una cordiale antipatia per i parenti di mamma, specie per questo tale zio Armandino. Spesso lo bollava con quegli epiteti poco lusinghieri: scombinato, capa fresca. Per non dire della misteriosa allusione che ogni tanto faceva a proposito dei suoi congiunti... Tutta una famiglia di matti, quella.
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