lunedì 20 ottobre 2025

Flip Jarrett: La scommessa



Milwaukee, nel Wisconsin, è una città costruita sulla birra. Una città che si regge su una massa di schiuma ben più consistente delle piccole onde che si frangono sulla sassosa spiaggia del lago. L’odore del lievito si addensa nell’aria dalla primavera all’autunno e si disperde soltanto con la prima neve. Gli inverni sono gelidi e amari. La gente si raggruppa nei bar del vicinato e, per scaldarsi, beve la birra su cui la città si regge.
Le insegne al neon reclamizzano i nomi delle varie birre con teutonico orgoglio. Le luci rosse e blu illuminano le pallide facce carnose dei locali mentre seguono la partita di football americano su un tremolante schermo TV o lanciano dardi contro una tavola di sughero fissata alla parete.
Lo sconosciuto siede a un tavolino d’angolo vicino al bersaglio delle freccetta. È un uomo di mezz’età, con la barba nera e gli occhi azzurri. Beve birra, fuma sigarette e ne schiaccia via via i mozziconi in un portacenere di vetro. Non guarda la gente che ha attorno: è intento unicamente a bere e a fumare. Nessuno, nel bar, presta attenzione a lui. È un solitario, un estraneo lì nel vicinato e in quell’unico bar del vicinato.
Il lancio di un tale un po’ brillo manda una freccetta bianca e rossa a infilzarsi nel pannello di legno scuro, proprio vicino alla testa del forestiero. Uno dei locali si avvicina e si ferma un po’ barcollante vicino al tavolo.
— La mia freccetta — biascica.
Il solitario lo guarda. Guarda la freccetta infissa nel legno. Torna a guardare la faccia grassoccia e arrossata dell’uomo del luogo.
— Ha sbagliato il tiro.
— Mi spiace. Avrei potuto cavarle un occhio. Forse dovrebbe sedersi da qualche altra parte.
— A me piace star qui. È lei che dovrebbe stare un po’ più attento.
Estrae la freccetta dal legno, senza mai staccare gli occhi dalla faccia dell’altro, e glielo porge, tenendolo per la punta.
— Sa lanciare, lei? — L’uomo prende il piccolo dardo, lottando contro il senso di disagio provocato dagli occhi azzurri dello sconosciuto.
— Sì.
— Vuol fare una partita?
— Forse, se la posta è giusta.
— Giochiamo un penny al punto. — Poi, in tono di scusa, l’uomo del postoaggiunge: — Non è molto, ma è denaro per la birra.
— Io gioco per avere informazioni.
— Come dice?
— Se vinco, lei risponde alla mia domanda. Se vince lei, io rispondo alla sua.
— Ma è assurdo. Cosa ne sa di quello che m’interessa sapere?
— Questa è una domanda. Vinca una partita e me lo chieda.
— Lei è matto. — Quello del luogo torna ondeggiando dai suoi amici al bar. C’è una pausa nel rauco chiacchiericcio, mentre lui riferisce agli altri sul modo di giocare del solitario. Uno alla volta, quelli arrischiano un’occhiata all’uomo seduto al tavolino d’angolo. Appena il loro sguardo incontra quello degli occhi azzurri dello sconosciuto, si affrettano a fissare dentro la loro birra.
Alla fine, il più giovane del bar, un ragazzo che sì e no ha l’età per bere insieme agli uomini, si stacca dal gruppo. Sospinto dalle loro voci incoraggianti, si avvicina al tavolo dello sconosciuto.
— Gioco io con lei — dice senza preamboli.
Lo sconosciuto lo guarda in silenzio. Ha una faccia rovinata dall’acne, il ragazzo, con appena un accenno di barba bionda tra una cicatrice e l’altra.
Senza neppure rispondere, lo sconosciuto si alza, si toglie la giacca e l’appende a un gancio fissato alla parete. Mette una mano in tasca e tira fuori un piccolo astuccio di cuoio nero. S’incammina verso il bar, e quelli del posto si dividono, come un gregge. Lui posa l’astuccio sul banco e lo apre. Prende tre freccette dall’astuccio e sono tutte e tre nere.
Il ragazzo del posto lancia per primo. Si protende ben oltre il segno e il suo lungo braccio scarno si muove avanti e indietro. Lancia bene. Il solitario si prepara, un piede sul segno, il corpo asciutto e ben bilanciato. La sua mano ha un guizzo e il piccolo dardo va a segno con un sonoro tonfo. Lancia meglio lui.
La partita è conclusa. Il solitario ha vinto.
— Ora tu risponderai a una mia domanda.
— Certo, signore, come vuole lei — dice il ragazzo, immusonito dalla sconfitta.
— Conosci Kramer?
— Il vecchio Kramer? Sì, come no, e chi non lo conosce! Viene qui ogni sera alle nove meno un quarto. Beve due birre, poi se ne torna nel suo misero alloggio e non si fa più rivedere fino alla sera dopo. Che cosa vuole sapere?
— Questa è una domanda. Vinci, prima, e poi la farai.
Il ragazzo prova e perde di nuovo.
— Credo di doverle un’altra risposta — dice.
— Certo.
— Bene, domandi.
— Dove abita Kramer?
— A circa due isolati da qui, nella casa della vecchia signora Simpson. Lui ha una camera al piano terreno. Oh Cristo, ma perché...?
— Quella è un’altra domanda.
— Lo so, lo so. «Vinci una partita e poi chiedi». Lei è un tipo strano, lo sa?
Lo sconosciuto sorride. Il suo non è un sorriso amabile. — Anche questa è una domanda.
— Allora, vuole continuare a giocare? Magari per una birra o qualcosa, stavolta? Quelle domande mi danno un po’ sui nervi.
— Sì. Stavolta giochiamo per un servizio.
— Ehi, amico, un momento. Sia chiaro che io cose strane non ne faccio.
— Questo è certo — dice il solitario, ma il tono è di chi non ne è certo affatto. — Niente “cose strane”. Hai la mia parola.
Il ragazzo guarda sospettosamente lo sconosciuto. Qualcosa, in quei freddi occhi azzurri, gli assicura che la parola di quell’uomo vale più di un contratto firmato e autenticato dal notaio. — Sì, d’accordo. Ma lei che specie di servizio potrebbe fare per me?
— Potrebbe esserti molto utile sapere che un uomo come me ti è in debito di un servizio. — Il forestiero mette una strana enfasi sulla parola “utile”. Il ragazzo pensa subito ad un certo bulletto dei sobborghi che sta ronzando intorno alla sua ragazza. Se vince, è certo che quell’uomo potrebbe rendersi “utile”, mandando quel teppista all’ospedale.
— Okay: giocherò ancora una partita.
E perde.
— Accidenti, ma chi le ha insegnato a lanciare le freccette, Guglielmo Tell?
— Un servizio? — gli rammenta lo sconosciuto.
— Sì. — Il ragazzo del posto è pentito d’avere accettato, ma istintivamente sa che rifiutarsi di pagare la scommessa sarebbe un suicidio.
— Vai a dire a Kramer che sono qui.
— Solo questo? È tutto qui?
— Tutto qui.
— Ma chi devo dirgli che è, lei? Voglio dire, che cosa riferisco esattamente. Un tale al bar ha detto che lui è qui?
— Capirà, vedrai.
Il ragazzo guarda gli altri, nel bar. Lo stanno osservando, avvertendo la tensione come gli animali avvertono l’approssimarsi di una tempesta.
— Va bene — dice il ragazzo. — Una scommessa è una scommessa.
Prende dal gancio dietro la porta la sua giacca a vento imbottita ed esce nell’inverno del Wisconsin. Due isolati d’estate sono soltanto due isolati ma, con la temperatura sotto zero e i grossi fiocchi di neve che cadono, due isolati si stendono per infernali, glaciali chilometri.
Il ragazzo procede a testa china lungo il sentiero ghiacciato, tra la montagna di neve accumulata dallo spazzaneve lungo il marciapiede e la fila di negozi chiusi. Cammina in fretta, sapendo di rischiare una caduta, per far circolare il sangue nelle gambe sotto i jeans troppo leggeri. Impreca contro se stesso a ogni passo che fa. Perché ha accettato una scommessa così idiota? Perché non riesce a scacciare la sensazione d’avere perso molto di più di una camminata di due isolati in una notte gelida?
La casa della vecchia signora Simpson è proprio al termine del secondo isolato. Lei è morta prim’ancora che lui nascesse e ora la casa è di proprietà di un avvocato. Lui percorre il vialetto laterale e si addentra in un vicolo dove il freddo morde un po’ meno che nella strada maestra. A sinistra, c’è la porta di servizio dell’appartamento grande che guarda verso la strada e le scale che conducono al piano superiore. Quella di destra è invece la porta di Kramer. Lui bussa con forza, sapendo che l’uomo è quasi sordo.
La porta si apre lentamente, trattenuta da una catena. Una zaffata d’aria calda investe la faccia del ragazzo. Una testa bianca e una faccia con gli occhiali fluttua nell’apertura come una nuvola miope.
— Sì? — domanda la voce di un uomo anziano.
— Sono io, Kramer. — Il ragazzo non vuole mancare di rispetto. Non conosce il nome di battesimo dell’uomo.
— Ah. — Occhi incerti lo mettono a fuoco attraverso le lenti spesse. — Il vialetto è già stato spalato.
La porta già accenna a richiudersi. Il ragazzo la blocca con la mano. — Non spalo più la neve, io... ho un lavoro alla birreria, ora. Cristo, posso entrare? Mi sto gelando tutto, qui fuori.
La porta si richiude in parte e si sente sferragliare la catena. Il ragazzo avanza attraverso l’apertura e, mentre Kramer richiude e torna a sprangare, si toglie la giacca a vento.
Se la tenesse addosso, in un attimo si ritroverebbe in un bagno di sudore, e gelerebbe ancora di più una volta fuori.
Ora è in una minuscola cucina con un tavolinetto e due sedie. Nella stanza al di là, s’intravede un letto sfatto e un cassettone ricoperto di medicine.
— Siediti — dice Kramer. C’è un che di cantilenante nel suo tono di voce.
Il ragazzo appende la giacca alla spalliera di una delle sedie e prende posto. Kramer appoggia le mani aperte sul tavolo e, lentamente, si cala sull’altra sedia. Studia la faccia del giovane.
— Io ti conosco. — Sembra fiero d’essere riuscito a riconoscere il ragazzo. — Ti vedo spesso al bar. Stavo appunto preparandomi per andare a farmi un goccetto, come tutte le sere.
Il ragazzo non ha mai sentito nessuno parlare di “un goccetto” nel riferirsi a due birre scure, e lo trova strano, ma il gelo della notte e la tensione che, chissà perché, lo tormenta, gli tolgono qualsiasi voglia di ridere. — C’è un uomo al bar — dice, desiderando levarsi il pensiero in fretta e andarsene. — Ha detto di riferirle che lui era là.
— Un uomo?
— Sì, sui quarantacinque, cinquant’anni. Suppergiù alto come me, capelli neri, la barba. Ha gli occhi azzurri. E sa giocare a freccette in maniera incredibile.
Il vecchio abbassa la testa e resta in silenzio.
— Kramer? Mi ha sentito?
— Sì.
— Ah... Be’, questo è tutto. — Ma non si alza per andarsene. Dopo qualche istante, fa la domanda che avrebbe posto se avesse vinto. — Di che si tratta?
Kramer rialza la testa. La luce della cucina gli batte sulla faccia, lasciando profonde ombre dietro le lenti, al posto degli occhi. Quando parla, le parole escono più oscure delle ombre.
— Vent’anni fa mi preparavo ad andare in pensione. La società per cui avevo lavorato per tutta la vita fece bancarotta, e quindi addio pensione. Sei troppo giovane, tu, per sapere che cosa significhi campare con la sola Assicurazione Sociale. Entrò un uomo nel bar dove stavo bevendo. Si era verso la metà del pomeriggio, ed eravamo soli. Lui aveva con sé una valigia nera. Disse di volermi sfidare a una partita a freccette. La scommessa era un passaggio fino in Canada contro il contenuto della valigia. La valigia era piena zeppa di denaro.
«Giocai con lui e persi.
«Lo accompagnai in macchina verso nord, viaggiando per ore, poi dovetti fermarmi per rifare il pieno. Quando lui si allontanò per andare alla toilette, io ripartii. Telefonai alla polizia e dissi dove potevano trovarlo. Il denaro della ricompensa offerto dalla banca era sufficiente, per me, per evitare di finire in un ricovero.
Kramer punta ancora una volta le mani sulla tavola e si tira su dalla sedia. S’incammina lentamente e stacca un pesante cappotto grigio dal gancio dietro la porta d’entrata.
— Dove sta andando? — domanda il ragazzo.
— E l’ora del mio solito goccetto.
— Ma lui è là. Io... io ho detto tutto. Era la scommessa che avevamo fatto, quando lui mi ha battuto a freccette.
— Quando hai perso, hai pagato la scommessa?
— S-sì.
— Una scommessa è una scommessa, figliolo. La tua l’hai pagata, ora lascia che io paghi la mia.


  

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