giovedì 18 settembre 2025

Lee Child - Implacabile



La città sembrava piccola su una mappa dell’America. Era solo un puntino insignificante, vicino a una strada rossa che attraversava mezzo pollice di carta altrimenti vuota. Ma in realtà ci abitava mezzo milione di persone. Copriva più di centocinquanta chilometri quadrati. Ospitava quasi centocinquantamila famiglie. Aveva più di duemila acri di parchi. Spendeva mezzo miliardo di dollari all’anno e ne raccoglieva quasi altrettanti attraverso tasse, diritti e oneri. Era sufficientemente grande da giustificare il dispiegamento di milleduecento unità nel dipartimento di polizia. Ed era sufficientemente grande da essere spartita tra due organizzazioni criminali. Gli ucraini controllavano l’Ovest. Gli albanesi controllavano l’Est. La linea di demarcazione tra le due aree era rigorosa come quella di un distretto congressuale. Ufficialmente seguiva Center Street, che correva da nord a sud e divideva la città in due parti, ma zigzagava e serpeggiava includendo o tenendo fuori specifici blocchi e parti di specifici quartieri, ovunque si riteneva che i precedenti storici lo giustificassero. Le trattative erano state tese, si erano verificati piccoli scontri e c’era una buona dose di ostilità. Ma alla fine era stato raggiunto un accordo. L’accordo sembrava funzionare: ogni parte si teneva lontana dall’altra. Per molto tempo non c’erano stati contatti significativi tra loro.
Fino a una mattina di maggio. Il boss degli ucraini aveva parcheggiato in un garage in Center Street e si era diretto a piedi verso est, in territorio albanese. Da solo. Aveva cinquant’anni ed era alto, robusto e solido come la statua di bronzo di un antico eroe. Si faceva chiamare Gregory, che era quanto di più vicino al suo nome gli americani riuscissero a pronunciare. Era disarmato, e indossava pantaloni stretti e una maglietta attillata perché fosse evidente. Niente nelle tasche. Niente di nascosto. Girava a destra e a sinistra, addentrandosi nel quartiere, dirigendosi verso un isolato in una strada secondaria dove sapeva che gli albanesi gestivano i loro affari negli uffici sul retro di un deposito di legname. Era stato tenuto sotto controllo per tutto il tempo, fin dal suo primo passo oltre il confine. La sua presenza era già stata segnalata, così che al suo arrivo si trovò di fronte sei uomini

in silenzio, immobili in semicerchio tra il marciapiede e il cancello del deposito di legname. Come scacchi in formazione difensiva.
Gregory si fermò tenendo le braccia lontane dai fianchi. Si girò lentamente su se stesso, con le braccia ancora larghe. Pantaloni stretti, maglietta stretta. Niente protuberanze. Nessun rigonfiamento. Niente coltello. Niente pistola. Disarmato, davanti a sei tizi che senza dubbio non lo erano, ma non era preoccupato. Attaccandolo senza motivo gli albanesi avrebbero corso un rischio che non volevano correre. Lui lo sapeva. Mai venir meno al galateo. Le buone maniere erano le buone maniere. Uno dei sei uomini, sempre in silenzio, si fece avanti, in un movimento a metà tra una manovra di blocco e un invito a parlare.
«Devo vedere Dino», disse Gregory.
Dino era il capo albanese.
«Perché?» chiese l’altro.
«Ho delle informazioni.»
«Su cosa?»
«Qualcosa che deve sapere.»
«Potrei darti un numero di telefono.»
«Questa è una cosa che va detta faccia a faccia.»
«È necessario parlarne proprio ora?»
«Sì, è necessario.»
L’altro non disse nulla per un po’, poi si girò e imboccò l’ingresso del personale, che si apriva in una serranda di metallo. Gli altri cinque si erano stretti per sostituire l’elemento mancante. Gregory aspettò. I cinque ragazzi lo guardavano, in parte diffidenti, in parte curiosi. Era un’occasione unica, irripetibile. Come vedere un unicorno. Il capo dell’altra metà, proprio lì. Le trattative precedenti si erano svolte su un terreno neutrale, un campo da golf all’uscita della città, oltre l’autostrada. Gregory aspettò. Cinque lunghi minuti dopo, l’uomo riemerse dalla porta di servizio, che lasciò aperta, e gli rivolse un cenno. Gregory si avvicinò, abbassò il capo e si infilò dentro. Sentì odore di legno di pino fresco e il lamento di una sega.
«Dobbiamo perquisirti per microfoni», disse l’uomo di Dino.
Gregory annuì e si tolse la maglietta. Il torso era coriaceo, robusto e coperto di peli. Nessun microfono. L’uomo controllò le cuciture della maglietta e gliela restituì. Gregory la indossò e si passò le dita tra i capelli.
«Da questa parte», disse l’albanese. Condusse Gregory all’interno del capannone di lamiera, seguito dagli altri cinque.
Arrivarono a una semplice porta di metallo, oltre la quale si trovava un locale senza finestre, allestito come una sala riunioni. Quattro tavoli in laminato erano stati spinti l’uno contro l’altro, come una barriera. In una sedia al centro, sul lato opposto, c’era Dino. Era più giovane di Gregory di un anno o due, e più basso di un centimetro o due, ma più grosso. Aveva i capelli scuri e una cicatrice da coltello sul lato sinistro del viso, un tratto corto sopra il sopracciglio e più lungo dallo zigomo al mento, come un punto esclamativo a testa in giù. Il tizio che gli aveva fatto strada tirò fuori una sedia per Gregory e la mise di fronte a Dino, poi aggirò il tavolo per sedersi alla sua destra, come un fedele luogotenente. Gli altri cinque si divisero e si sedettero accanto a loro, tre da una parte e due dall’altra. Gregory fu lasciato solo dal suo lato del tavolo, di fronte a sette facce inespressive.
All’inizio nessuno parlò.
«A cosa devo questo grande piacere?» chiese infine Dino.
Mai venire meno al galateo.
«La città sta per avere un nuovo commissario di polizia», disse Gregory.
«Lo sappiamo», ribatté Dino.
«Promosso dall’interno.»
«Lo sappiamo», ripeté Dino.
«Ha promesso un giro di vite, contro entrambi.»
«Lo sappiamo», disse Dino per la terza volta.
«Abbiamo una spia vicino a lui.»
Dino non disse nulla. Questo non lo sapeva.
«La nostra spia ha trovato un file segreto su un drive esterno nascosto in un cassetto.»
«Un file?»
«Il suo piano operativo per distruggerci.»
«E quale sarebbe?»
«Non contiene molti dettagli. In alcune parti è estremamente sommario, ma giorno per giorno e settimana dopo settimana sta riempiendo sempre più parti del puzzle grazie a un flusso costante di informazioni che arrivano dall’interno.»
«Da dove?»
«La nostra spia ha cercato a lungo e ha trovato un altro file.»
«Quale altro file?»
«È una lista.»
«Una lista di cosa?»
«Gli informatori più fidati del dipartimento di polizia.»
«E?»
«C’erano quattro nomi sulla lista.»
«E?»
«Due di loro erano miei uomini.»
Nessuno parlò.
«Che fine hanno fatto?» chiese Dino.
«Sono sicuro che lo immagini.»
Di nuovo nessuno parlò.
«Perché me lo stai dicendo? Cosa ha a che fare questo con me?» riprese Dino.
«Gli altri due nomi sulla lista sono tuoi uomini.»
Silenzio.
«Condividiamo una situazione difficile», disse Gregory.
«Chi sono?»
Gregory riferì i nomi.
«Perché me lo hai detto?»
«Perché abbiamo un accordo. Sono un uomo di parola.»
«Non avresti che da guadagnare, se mi togliessero di mezzo. Avresti il controllo sull’intera città.»
«In teoria, sì», disse Gregory. «Ma ora mi rendo conto che dovrei essere contento di come stanno le cose. Dove troverei abbastanza uomini fedeli per gestire anche le tue operazioni? A quanto pare non riesco a trovarne nemmeno per gestire le mie.»
«A quanto pare, lo stesso vale per me.»
«Torneremo a combattere domani. Oggi rispetteremo l’accordo. Mi dispiace di averti dato una notizia imbarazzante, ma lo è anche per me. Spero che questo conti qualcosa. È un problema per tutti e due.»
Dino annuì. Non disse nulla.
«Ho una domanda», disse Gregory.
«Chiedi.»
«Me lo avresti detto, come ho fatto io, se la spia fosse stata tua e non mia?»
Dino rimase a lungo in silenzio. «Sì, per le stesse ragioni. Abbiamo un accordo. E, se entrambi abbiamo dei nomi sulla loro lista, nessuno di noi due dovrebbe avere fretta di agitare le acque.» Gregory annuì e si alzò. Anche il braccio destro di Dino si alzò per mostrargli l’uscita.
«Siamo al sicuro ora?» chiese Dino.
«Per quello che mi riguarda, sì. Posso garantirlo. Dalle sei di stamattina. Abbiamo un ragazzo al crematorio della città. Ci deve dei soldi. Oggi ci ha concesso di accendere il fuoco un po’ prima del solito.»
Dino annuì, sempre in silenzio.
«Siamo al sicuro, per quello che riguarda te?» chiese Gregory.
«Lo saremo. Entro stasera. Abbiamo un tizio alla rottamazione auto. Anche lui è in debito con noi.» Il luogotenente di Dino mostrò a Gregory l’uscita, attraverso il lungo capannone fino alla porta nella serranda e poi fuori, nella calda luce del mattino di maggio.
In quel momento Jack Reacher era a un centinaio di chilometri di distanza, su un autobus Greyhound, sull’interstatale. Era sul lato sinistro, verso il fondo, nel posto vicino al finestrino sopra l’asse. Non c’era nessuno accanto a lui. In totale c’erano altri ventinove passeggeri. Il solito misto, niente di speciale. Tranne una situazione potenzialmente interessante. Dall’altra parte del corridoio, una fila avanti, c’era un uomo addormentato con la testa ciondoloni. Aveva i capelli grigi in disordine, il colorito malsano e la pelle flaccida, come se avesse perso molto peso. Poteva avere settant’anni. Indossava una giacca corta con la zip blu di cotone pesante, forse impermeabile. Il fondo di una busta gonfia gli usciva dalla tasca.
Reacher la riconobbe, ne aveva già viste di simili in precedenza. A volte, se il bancomat era rotto, entrava in una filiale della banca e si rivolgeva al cassiere, dall’altra parte dello sportello. Il cassiere chiedeva quanto voleva, e lui pensava che se i bancomat non erano più tanto affidabili, forse avrebbe dovuto prendere una mazzetta decente, per stare tranquillo, e chiedeva due o tre volte quello che prendeva normalmente. Una grossa somma. Al che il cassiere chiedeva se voleva una busta. A volte Reacher diceva di sì, per il gusto di farlo, e metteva i soldi in una busta uguale a quella che usciva dalla tasca del tizio addormentato. Stessa carta spessa, stesse dimensioni, stesso rigonfiamento, stesso peso. Qualche centinaio di dollari, o qualche migliaio, a seconda del taglio delle banconote.
Ma Reacher non era l’unico ad averla vista. L’aveva notata anche un tizio seduto più avanti. Era chiaro che era molto interessato alla cosa, poiché non faceva che guardarsi attorno. Era un ragazzo magrolino con i capelli unti e il pizzetto. Sulla ventina, con una giacca di jeans. Poco più di un ragazzino. Osservava, pensava, pianificava. Si passava la lingua sulle labbra.
L’autobus procedeva. Reacher guardava fuori dal finestrino, la busta, il ragazzo che guardava la busta.
Gregory uscì dal garage di Center Street e tornò in territorio ucraino. I suoi uffici erano sul retro di una compagnia di taxi, di fronte a un banco dei pegni, accanto a un ufficio di deposito cauzioni, tutti di sua proprietà. Parcheggiò la macchina ed entrò. I suoi uomini più fidati lo stavano aspettando. Quattro, tutti simili tra loro e a lui. Non avevano legami di sangue, ma provenivano dalle stesse città, dagli stessi villaggi e dalle stesse prigioni del vecchio Paese, che probabilmente era anche meglio. Lo guardarono tutti. Quattro facce, otto occhi spalancati, una sola domanda. A cui lui rispose.
«Un successone. Dino si è bevuto l’intera storia. È una capra, lasciate che ve lo dica. Avrei potuto inventarmi qualsiasi cosa. I due ragazzi che ho nominato hanno le ore contate. Si prenderà un giorno per riorganizzarsi. Approfittiamo dell’occasione. Abbiamo circa ventiquattr’ore. Hanno il fianco scoperto.»
«I soliti albanesi», disse il suo braccio destro.
«Dove hai mandato i nostri due?»
«Alle Bahamas. Un tizio del casinò ci deve dei soldi. Ha un bell’albergo.»
I cartelli federali verdi lungo la corsia d’emergenza dell’autostrada indicavano una città nelle vicinanze. La prima tappa della giornata. Reacher osservò il ragazzo col pizzetto tracciare mentalmente le fasi del suo piano. C’erano due incognite: il tizio con i soldi sarebbe sceso? E, in caso contrario, si sarebbe svegliato comunque, tra frenate, svolte e scossoni?
Reacher continuava a osservare. L’autobus prese l’uscita. Una statale a quattro corsie lo condusse a sud, attraverso una pianura umida per le piogge recenti. La corsa rimase tranquilla. Le gomme sibilarono e il tizio con i soldi continuò a dormire. Il ragazzo col pizzetto insisteva nel guardarlo e Reacher capì che aveva preso una decisione. Si chiedeva se il piano fosse intelligente. La mossa migliore sarebbe stata quella di sottrarre la busta subito, nasconderla bene e scendere dall’autobus non appena si fosse fermato. Anche se il tizio si fosse svegliato senza soldi, all’inizio sarebbe stato confuso. Forse non si sarebbe nemmeno accorto che la busta era sparita. Non subito. E, anche se l’avesse fatto, perché avrebbe dovuto pensare al peggio? Avrebbe pensato che era caduta, passando qualche minuto a controllare il sedile, poi sotto, sotto il sedile di fronte, immaginando di averla allontanata con un piede nel sonno. Solo dopo avrebbe cominciato a guardarsi intorno, sospettoso. A quel punto l’autobus si sarebbe fermato e la gente si sarebbe alzata, sarebbe scesa e salita. Il corridoio sarebbe stato affollato. In quei momenti ci si può allontanare non visti senza problemi. Questa sarebbe stata la mossa intelligente. Il ragazzo lo sapeva?
Reacher non lo avrebbe mai scoperto: il tizio con i soldi stava per svegliarsi prima del previsto. L’autobus rallentò e si fermò a un semaforo con un sibilo di freni, la testa del tizio colpì il sedile, lui sbatté le palpebre, si accarezzò la tasca e spinse la busta più in fondo dove nessuno poteva vederla. Reacher si rimise comodo, il ragazzo con il pizzetto fece lo stesso. L’autobus accostò. Su entrambi i lati della strada c’erano campi spolverati dal verde pallido della primavera. Poi arrivarono i primi lotti commerciali, le attrezzature agricole, un concessionario con centinaia di macchine lucide allineate sotto bandiere e festoni. Quindi fu la volta dei parcheggi per uffici e di un gigantesco supermercato. Infine ecco la città, e le quattro corsie si ridussero a due. Più avanti c’erano edifici più alti, ma l’autobus svoltò a sinistra e fece il giro, mantenendo una buona distanza dai quartieri alti, fino a quando, quasi un chilometro dopo, arrivò al terminal. La prima fermata della giornata.
Reacher rimase al suo posto. Il suo biglietto era valido fino al capolinea. Il tizio con i soldi si alzò, annuì tra sé, si tirò su i pantaloni e sistemò la giacca. Tutti i gesti che fa un vecchio quando sta per scendere da un autobus.
Si incamminò nel corridoio trascinandosi in avanti. Niente borsa. Capelli grigi, giacca blu, una tasca gonfia, una tasca vuota. Il tizio con il pizzetto aveva ideato un nuovo piano, concepito all’improvviso. Reacher riusciva quasi a vedere gli ingranaggi che giravano nella testa mentre pregustava la vittoria. Una sequenza di conclusioni costruite su una catena di supposizioni. I terminal degli autobus non sono mai nella parte bella della città. Le porte d’uscita davano su strade malfamate, sul retro di altri edifici, forse lotti liberi, forse parcheggi a pagamento. Ci sarebbero stati angoli ciechi e marciapiedi vuoti. Sarebbe stato un ventenne contro un settantenne. Un colpo da dietro. Una semplice rapina. Succedeva sempre. Quanto poteva essere difficile? Il tizio con il pizzetto saltò in piedi e corse lungo il corridoio, tenendosi a un metro e mezzo di distanza dall’uomo con i soldi.
Reacher si alzò e li seguì entrambi.

 

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