venerdì 7 novembre 2025

Holly Degroot: Salvataggio dall'acqua ghiacciata

 



Era sabato, il 28 dicembre del 1996. La mia migliore amica, Candi Peterson, e io stavamo trascorrendo le vacanze di Natale del quinto anno di scuola e ci eravamo divertite moltissimo. L’inverno era stato eccezionalmente rigido e la notte precedente erano caduti circa sessanta centimetri di neve nella nostra piccola cittadina di La Conner, Washington, sul Puget Sound. È raro che nevichi dalle nostre parti: accade solo ogni qualche anno. Avevo passato la notte a casa di Candi e avevamo osservato il paesaggio con un senso di delizia. La neve sembrava un regalo dell’ultimo minuto da parte di Dio!
Non appena ci fummo alzate, quella mattina, ci infilammo nelle nostre pesanti tute da neve e ci dirigemmo fuori con uno slittino. All’inizio ci mettemmo a slittare giù dalla collinetta accanto alla casa di Candi, poi ci spostammo verso le colline del campo di golf, vicino al porticciolo.
Lì l’acqua era ricoperta da un sottile strato di ghiaccio e aveva l’aria di essere proprio gelata: sarebbe stato sufficiente dare un’occhiata da vicino per esserne certe. Non ci era permesso di salire sulle banchine, sapevamo che per farlo e per gironzolare accanto alle barche era necessario essere accompagnati da un adulto e indossare un giubbotto salvagente, ma noi avevamo solo intenzione di osservare l’acqua gelata. Non ci sembrò pericoloso. Quando iniziammo a scendere la rampa mi spaventai un po’, perché le banchine erano coperte di neve. Era difficile capire dove finivano i lati della rampa, ma proseguimmo comunque. Ci mettemmo sedute sulla stretta banchina coperta di neve e spingemmo la slitta sullo strato di ghiaccio per vedere se avrebbe retto: il ghiaccio non si spezzò. Ci spostammo in un altro punto della banchina per fare ancora una prova: volevamo vedere il ghiaccio che si rompeva! Ma anche lì non si ruppe, quindi ponemmo termine al nostro esperimento scientifico e decidemmo di tornare a giocare con la slitta al campo di golf, come avevamo deciso in principio. Mi alzai e mi voltai per andarmene. Ma quando anche Candi si alzò, i suoi piedi scivolarono, facendola cadere nell’acqua ghiacciata.
Sentii il rumore del suo corpo che cadeva in acqua, mi voltai e urlai: “Candii”.
Era lì, nell’acqua gelata e melmosa a pochi metri dalla banchina, cercando disperatamente di tenere la testa fuori dall’acqua. Corsi verso di lei, non pensando ad altro se non al fatto che sarebbe potuta morire se non l’avessi aiutata. Mi sdraiai sulla pancia e riuscii ad afferrare la sua mano, ma non avevo la forza per tirarla su. Era così pesante, anche a causa della tuta e degli stivali. Tutte e due gridavamo aiuto, ma lì attorno non c’era nessuno che potesse sentirci. Cercai di nuovo di tirarla fuori dall’acqua. Le chiesi se sarebbe riuscita a resistere mentre io andavo a cercare aiuto. “No”, mi implorò, “Holly, non lasciarmi, ti prego”.
Adesso i suoi stivali erano emersi dall’acqua e Candi batteva i denti. Stava congelando.
Mi alzai e lanciai ancora una volta un’occhiata alla banchina dietro di me, sperando di scorgere un adulto che avesse la forza di tirare fuori Candi. Non c’era nessuno. Mi resi conto che io ero la sua unica speranza di salvezza. Mi sdraiai sulla banchina cercando di nuovo di tirarla su.
I miei precedenti tentativi mi avevano sfinito e mi facevano male le braccia. Sapevo che sarei stata in grado di provare ancora una sola volta, poi lei sarebbe annegata. Allora chiusi gli occhi per una frazione di secondo e pregai. Pregai di trovare la forza di tirare fuori dall’acqua la mia migliore amica. E, improvvisamente, potei avvertire la presenza di qualcuno accanto a me, qualcuno che mi avrebbe dato la forza e il coraggio per salvarle la vita.
Nello sforzo di non cadere io stessa, ancorai un piede sotto un rotolo di corda per avere un solido aggancio. Candi ora era più lontana dalla banchina. Non riuscivo più a raggiungere la sua mano, ma stirandomi quanto più potei riuscii ad afferrare la sua sciarpa di lana che galleggiava sull’acqua. Dissi un’altra preghiera e tirai e nonostante i due primi tentativi mi avessero lasciato stremata, questa volta provai la sensazione di essere sempre più forte. Lentamente tirai Candi fuori dall’acqua fino sulla banchina. Aprii la cerniera della sua tuta e le sfilai gli abiti inzuppati. Essendo cresciuta sulle rive del fiume sapevo che cos’è l’ipotermia e quanto velocemente può manifestarsi. Candi e io ora stavamo singhiozzando sebbene fossimo sollevate, ma lei stava ancora tremando di freddo ed era spaventata. La misi sulla slitta e la tirai su per la rampa più in fretta che potei per andare a cercare un telefono. Trovammo una cabina; io chiamai un’operatrice e piangendo spiegai l’accaduto. Lei mi mise in contatto con la madre di Candi, Cheri. A causa della neve e del ghiaccio Cheri non potè scendere con la macchina dalla collina e dovette correre a piedi per raggiungerci. Mentre l’aspettavamo, cercai di riscaldare Candi come potei, avvolgendola nel mio cappotto e abbracciandola. Quando arrivò sua madre, insieme trainammo la slitta e Candi su per la collina, fino a casa. Cheri preparò subito un bagno caldo per Candi.
Non ci fu alcuna conseguenza dell’incidente per la salute di Candi. Più avanti, quando ci capitò di parlare di quell’episodio, mi confessò che era certa di morire nell’acqua gelata. Io le parlai delle mie preghiere e del fatto che sapevo che c’era stato qualcuno che si era preso cura di noi quel giorno. Uno degli argomenti più discussi alla Chiesa Metodista di La Conner, che io frequento insieme alla mia famiglia, riguarda gli angeli custodi. Io so che quel giorno lì sulla banchina c’era un angelo custode, che mi aiutò a salvare Candi.

 

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