Lasciate che ve lo dica: in una giornata torrida, a Fantasyland, la vita può essere un inferno per King Kong. Bisogna indossare mutandoni lunghi, per evitare il prurito, e al termine della giornata sono inzuppati fradici. Perdo chili, nelle giornate di sole. Non che si veda. Una donna delle mie dimensioni deve perdere tonnellate, perché possa fare qualche differenza.
Non mi sto lamentando. Se prendiamo tutti i fatti in considerazione, posso dirmi fortunata per avere avuto questo lavoro. I fatti, naturalmente, sono la mia faccia e la mia figura.
Che fossi alta, lo si capiva fin dal principio. Avevo tredici anni quando capitò l’incidente, ed ero già un metro e sessanta.
Non è un handicap essere alta. Ci sono un sacco di modelle e di giocatrici di basket che superano il metro e ottanta. Ma dopo l’incidente cominciai a mangiare, in realtà per cercare conforto, e non è possibile confortarsi fino al punto in cui lo facevo io senza metter su un sacco di peso.
King Kong, all’inizio, doveva essere un uomo. Ma io ottenni l’impiego perché ero l’unica alla quale andasse bene il costume. King Kong è una star. Non avevo nemmeno fatto domanda, per quel personaggio. No, le mie speranze si appuntavano su Hettie Hamburger, una della troupe destinata alla tavola calda. Ma all’ultimo momento, soltanto un paio di giorni prima della grande inaugurazione, mi scambiarono di posto con Louis.
Louis, dicevano, era un po’ troppo moscio per essere convincente come King Kong. «Tutte le prove del mondo non trasformerebbero quell’essere così effeminato in un mostro plausibile» sentenziò il direttore artistico. Credono che, solo perché non riescono a vedere le nostre facce, non possiamo sentire quello che dicono di noi. Ma possiamo.
— Cos’è quella specie di immenso hamburger in fondo alla fila? — disse ancora, quando venne a ispezionare il nostro ristorantino. — Non è possibile avere un hamburger minaccioso. Ai bambini scapperebbe l’appetito.
Pensai che per me fosse la fine. Se fallisci anche come hamburger, non ti rimane molto da sperare. Ma il direttore artistico, grazie al cielo, aveva un po’ di fantasia. — Vediamo se riesce a infilarsi dentro K.K. — suggerì.
Potevo. — Fantastico — approvò il direttore artistico. — Pura dinamite. Mettetela vicino al cancello, per l’inaugurazione. Sembra vera.
L’inaugurazione fu un vero successo, con me e il Mostro della Laguna Nera ad accogliere la folla. I bambini strillavano e ridevano mentre io saltellavo intorno,ringhiando. Volevano lisciarmi la pelliccia e farsi fotografare insieme a me.
Non so dirvi quanto questo sia bello, per una come me. Senza un costume da mostro, nessuno vorrebbe mai scattarmi una foto, e i bambini attraversano la strada piuttosto che trovarsi faccia a faccia con me su un marciapiede. Adoro i bambini, io, ma devo essere realistica: è del tutto improbabile che possa mai averne uno tutto mio. Chi è sfigurato fa paura, ai bimbetti, e fa parte delle piccole ironie della sorte che abbiano imparato a volermi bene solo ora che il mio compito è di terrorizzarli. Sono un mostro meraviglioso, lasciate che lo dica io stessa. Chi avrebbe mai pensato che una persona come me potesse avere successo nel mondo dello spettacolo?
Ma non è così per tutti. La mia amica Cherry, per esempio, a volte era molto depressa. — Sono una danzatrice — mi ripeteva. — Una brava danzatrice. Sì, proprio una bravissima ballerina. Non un dannatissimo Panino Imbottito. È un insulto, anche se ho superato i trent’anni.
Ha superato i quaranta, in realtà, ma ha ragione: è ancora molto graziosa, nonostante sia diventata un po’ troppo grassoccia. È proprio un peccato, nasconderla dentro un sandwich.
— Ma gli dirò il fatto suo, a quel mio agente — soleva ripetermi. — Vedrai se non lo faccio. — Bene, forse l’avrà fatto o forse no. Quello che so è che a distanza di due anni fa sempre il panino, e un buon panino, tra l’altro. Dice che le mance non fanno che aumentare. Non apprezza decisamente il suo ruolo com’è nel caso mio, ma non si lamenta più come una volta.
Gli attori, a Fantasyland, si dividono nettamente in Cibi e in Mostri, e ritengo sia giusto dire che, dei due, i Mostri sono i più felici nel loro lavoro. Sono loro gli intrattenitori e gli estroversi.
Ma sono anche molto gelosi del loro territorio. Io avevo una giungla, circa mezzo acro di conifere varie e cespugli di rododendri, con un gran telaio sul quale arrampicarsi abilmente camuffato da liane rampicanti. Non c’è pericolo di cogliere Godzilla nel mio dominio. Lui si aggira nell’area intorno ai negozi di souvenir, mentre lo stagno delle barche appartiene al Mostro degli Abissi.
Naturalmente, alcuni dei mostri lavorano in squadre. La Tingle Trail è un percorso ferroviario in miniatura che comincia nella Foresta Nera con i Lupi Mannari nelle loro varie fasi di trasformazione e termina in un cimitero dove fanno incredibile mostra di sé gli Zombi e un paio di Rubacadaveri. Ci sono ventitré impiegati nella sola Tingle Trail, e devono lavorare osservando un perfetto tempismo.
Gli altri si producono più che altro improvvisando. Tutti noi abbiamo perfezionato l’arte di nasconderci e apparire in modo inaspettato. È un equilibrio delicatissimo: strilli di choc e di sorpresa sono segnali di un lavoro ben fatto, ma non bisogna spaventare la gente a rischio di provocarle una crisi cardiaca. Ci sono stati incidenti, e abbiamo imparato a stare attentissimi, specie per quel che riguarda i nonni. I bambini sono parecchio elastici: a loro piace venire terrorizzati. Ma i nonni possono essere piuttosto fragili.
Sebbene raramente ci capiti di assistere l’uno alle prestazioni dell’altro, in complesso c’era molto rispetto per il modo come ciascuno di noi se la cavava, viste le nostre condizioni di lavoro. Direi, per esempio, che la Mummia avesse il compito più difficile. La Tomba Egizia è un labirinto, e un labirinto è claustrofobico. La Mummia era uno di quelli che dal niente sapevano cavare qualcosa. Restava perfettamente immobile, e quando si muoveva lo faceva in modo impercettibile. Atterriva i suoi visitatori in modo lento e sottile e devo dire che, di tutti, era quello che ammiravo di più.
La Mummia un tempo cantava nei teatri lirici, finché l’asma non gli aveva rovinato la carriera. Era un uomo enorme ma, a differenza di me, non si esercitava con i pesi. Non ne aveva bisogno: la forza fisica non faceva parte del suo numero. Il suo forte era il tempismo. Peccato non averlo potuto vedere sulla scena: con quella statura e quella presenza, unite a quel tempismo perfetto, doveva essere davvero elettrizzante. La Mummia era un artista nonché una persona di una finezza squisita, perciò tutti noi soffrimmo personalmente la sua umiliazione.
Accadde una sera di giugno sul tardi. La biglietteria era chiusa da un’ora, ormai, e gli ultimi visitatori stavano andandosene alla spicciolata. Io ero scesa dalla mia intelaiatura di liane e stavo già avviandomi verso il mio camerino quando alcuni ragazzotti sbucarono d’improvviso dalla Tomba Egizia, rincorrendosi verso l’uscita. Notai, allarmata, che uno di loro sventolava un pezzo di stoffa in fiamme.
Il fuoco è un pericolo dal quale tutti siamo stati addestrati a guardarci, e il mio primo pensiero fu che qualcuno del pubblico fosse rimasto intrappolato nel labirinto. Mi precipitai dentro, gridando all’inserviente di accendere tutte le luci. Non conoscevo molto bene la tomba, e non volevo perdere tempo a correre intorno nel buio, alla ricerca di un estintore.
Trovai la Mummia supina, il costume tagliuzzato e i piedi in combustione. Fumo e spavento gli avevano provocato un attacco di asma. Era in pessime condizioni.
Spensi immediatamente il fuoco, ma liberargli la testa dal casco non era altrettanto facile. Dovevo prima di tutto liberare le mie mani. Il mio costume da King Kong non prevede che si facciano operazioni complesse e porto enormi guantoni di pelliccia. Eravamo in uno spazio molto ristretto e la Mummia è un pezzo d’uomo, ma alla fine ci riuscii. Le labbra stavano già diventandogli violacee.
È difficoltoso, per un asmatico, respirare completamente disteso. Avrei dovuto per prima cosa metterlo a sedere, ma il suo costume era rigido e voluminoso. Per fortuna arrivò un inserviente e, fra tutti e due, riuscimmo ad aprire l’intricato sistema di cerniere lampo e di Velcro e a liberare il poveretto.
La Mummia non era gravemente ferita. I piedi erano un po’ ustionati, ma era tutto lì. Non potevo fare a meno di pensare, però, a quello che doveva avere provato, intrappolato lì nella sua stessa tomba, imprigionato dentro quegli strati di lenzuola.
La provocazione era partita proprio dal costume. Evidentemente i ragazzi avrebbero voluto svolgere i teli della Mummia. Scoprire che non era possibile, li aveva resi furenti e violenti.
Come ripeto, quello che tutti noi sentivamo soprattutto era un senso di umiliazione. Dracula la espresse nel modo migliore. — È un rovesciamento di ruoli — disse. — Non dovrebbero essere loro a farci paura. Dovremmo noi far paura a loro.
Questo mi diede da pensare. — Ma è tutta un’illusione — osservai.
— È vero, K.K. — disse lui. — È solo nella loro mente che possiamo spaventarli, per cui essi stessi ci conferiscono il potere di farlo. Una volta che abbiano smesso di fare la loro parte, noi non possiamo più fare la nostra e... bang! è tutto finito.
Continuai a ripensare a quella conversazione, nei giorni che seguirono. Un giornale locale era venuto a sapere della storia della Mummia, e dal quel momento in poi il nostro pubblico parve cambiare.
Prima di tutto, non c’erano più tanti bambini. Immagino che genitori e nonni avessero paura di esporli al pericolo dei teppisti. E di teppisti ce n’erano decisamente molti di più. Gli incidenti si susseguivano. A Charley, la Mosca, vennero strappate le ali. La coda di Godzilla venne fatta a pezzi. Una banda di giovinastri tentò di fulminare la Sposa di Frankenstein. Eravamo oggetto di persecuzioni.
Che strano, pensavo. Sì, perché, quando si va alla radice delle storie originali, noi mostri diventavamo mostruosi soltanto per difenderci dalla persecuzione degli esseri umani. King Kong è un buon esempio. Lui stava solo cercando di difendere la piccola creatura che amava, ed ecco perché tanta gente usciva dal cinema con un senso di pena per lui. Proprio per questo King Kong non è un film dell’orrore. È un film d’amore. Non molti lo capiscono, però lo sentono. Ed era sempre un aspetto importante della mia caratterizzazione combinare la cruda potenza di King Kong con la tenerezza. Non era difficile: credo d’averlo già detto, che amo molto i bambini.
Nessuno poteva definire Cherry un tipo materno, eppure i bambini mancavano molto anche a lei. — Non lo so, K.K. — diceva — se sono destinata a far ridere, preferisco che a ridermi in faccia siano i piccoli, piuttosto che quei tipacci odiosi. Quelli non sanno come divertirsi senza far male a qualcuno.
Quanto aveva ragione. Ancora una volta, accadde verso sera. Arrivarono in cinque, proprio mentre i miei ultimi visitatori se ne stavano andando. Avevano i capelli talmente corti da lasciar scorgere i tatuaggi sul cranio, e portavano i calzoni infilati dentro scarponi militari.
Invasero il mio territorio di corsa, battendo sui cespugli di rododendri con i loro bastoni e urlando: — Dov’è lo scimmione, dov’è?
Rimasi dov’ero, sulla mia intelaiatura di liane. Speravo che la mia famigliola riuscisse ad allontanarsi indisturbata e andasse a chiamare aiuto. Invece rimanevano là, come inebetiti. C’erano tre bambini, ricordo, tutti sotto i sette anni. Erano con la loro mamma, e il vecchio signore era probabilmente il padre di lei. Tanto carini, si erano mostrati: mi avevano scattato foto con in braccio il bambino più piccolo e gli altri due ai lati. Non volevo che capitasse loro qualcosa di male.
Per fortuna quei teppisti noie badavano a loro. Con le loro mazze picchiavano sulla base della mia intelaiatura. Cercavano di farmi cadere.
— Dài, dài, dài! — urlavano. — Vieni giù, che ti diamo un po’ di noci. — Non mi muovevo. Potevano scrollare quel telaio per tutta la notte, non si sarebbe mosso.
— Te le daremo in testa, le noci — dicevano. — Se non vuoi scendere e combattere come uno scimmione, ti trascineremo giù noi.
Presero ad arrampicarsi su per il mio telaio. Si appesero alle mie funi. Io andavo da un livello all’altro, per evitarli. Se soltanto la famigliola fosse corsa a cercare aiuto – se soltanto quei teppisti fossero stati stupidi – forse me la sarei cavata.
Ma ne basta uno solo con un filo d’intelligenza per organizzare gli altri quattro in un’unità pericolosa. Era minuto. Era tutto nervi. Aveva limpidi occhi celesti che ora ardevano d’eccitazione: era uno di quei ragazzi che amano le sfide. La mia agilità su per quelle liane era una sfida, per lui. Diventò una competizione, con lui deciso a vincere.
Mise gli altri tre a sospingermi fino all’orlo del telaio. Il quarto lo mise a una fune. Mentre mi preparavo a issarmi al livello successivo, lui fece scattare la sua trappola.
— Ora! — urlò.
Il ragazzo appeso alla fune prese lo slancio. Lo vidi arrivare, ma senza poter far niente. Mi colpì come un pendolo di ferro e io volai via dalle liane e andai ad abbattermi al suolo. Gli altri mi caddero addosso. Credevo d’essermi spezzata la schiena.
Ben presto si tirarono su. — Vediamolo, questo bastardo — disse il capo. — Tirategli via la maschera da mostro.
Strapparono via la faccia di King Kong dalla mia e la gettarono tra i cespugli.
— Cristo! — esclamarono subito. — Oh, maledizione! Guardate che roba!
I bambini, che fino a quel momento avevano solo piagnucolato, si misero a urlare.
Quasi non sopporto di ricordare quello che accadde in seguito. Forse, mi ricorda in modo troppo penoso il passato. Vedete, dopo l’incidente, dopo che la mia faccia si era rimarginata, mia madre decise che sarebbe stato meglio, per me, fare un intervento di chirurgia plastica, per rimettere le cose a posto. Così, rientrai in ospedale, dove mi ruppero di nuovo gli zigomi e cercarono di ricostruirmi le occhiaie. Ma qualcosa andò male. Accade, talvolta. La colpa non era di nessuno. Forse, ebbi un rigetto dei miei stessi tessuti.
Mia madre era partita piena di speranza ma, dopo il fallimento, per i medici diventò sempre più arduo darle conforto. Alla fine, prese con sé la mia sorellina e se ne andò al nord, in Scozia, e non la rividi mai più. Infatti, via via che a lei riusciva impossibile sopportare la vista della mia faccia, riusciva impossibile a me sopportare la vista della sua. Be’, non proprio della faccia, ma più che altro dell’espressione. Non sono obbligata a guardare me stessa, ma devo per forza guardare le persone che mi stanno guardando. Lo so di far paura, e quando gli altri guardano me diventano brutti a loro volta.
L’ultima battuta del film King Kong dice: «Era stata la bellezza ad uccidere la bestia». Bene, secondo la mia esperienza, è proprio il contrario. Perfino le persone più belle quando guardano me diventano orribili, perciò è la bestia a uccidere la bellezza.
I bambini urlavano.
Il ragazzo dagli occhi azzurri esclamò: — Dio! Sfido che si camuffa da scimmione.
— Andiamo — disse poi. — Leviamoci di qui, prima che mi venga da rimettere.
Mi rialzai. Non potevo trovare la maschera. Mi sfilai i guanti. Lo colpii su un lato della sua bella testa e, come andò a terra, mi gettai alla sua gola con tutto il mio peso.
Sapete, a volte trovate un frammento d’osso in una lattina di salmone, e quando vi finisce sotto i denti si rompe con una specie di scricchiolio molle. Fu altrettanto facile.
Non avrei dovuto farlo. Ero più grossa di lui. In fondo era soltanto un ragazzo: non più un bambino, ma nemmeno un adulto. Ma al momento mi sembrò che mi avesse tolto tutto quello che era mio. Tutto quello che avevo era un’illusione, in fondo: l’illusione d’essere un mostro. Non si può uccidere qualcuno per questo. Non basta.
La cosa strana è come tutti si mostrarono comprensivi, in proposito: perfino la polizia. «Capisco» continuavano a ripetere tutti. Guardano la mia faccia e dicono, «capisco», come se la mia faccia spiegasse loro tutto, come se una faccia sfigurata giustificasse un’azione orrenda. Perfino i dottori, che sono uomini istruiti e dovrebbero ragionare diversamente, pensano che anni di sberleffi e di repulsioni mi abbiano spinta a commettere un omicidio. Il mio difensore si dice certo che il tribunale accetterà la tesi della legittima difesa. — Comprenderanno — assicura, fiducioso.
E se io lo dicessi, alla corte, che avevo semplicemente perso la testa? Mettiamo che dichiarasse, come ora lo dico a voi, che la mia faccia non rappresenta, per me, niente di più di quello che la vostra rappresenta per voi? La mia faccia è un incidente, ma io sono responsabile delle mie azioni. Una vita triste e una faccia sfigurata non mi fanno meno responsabile per avere perso la testa, dico bene?
Forse pensano davvero che io sia King Kong, che non sia del tutto umana. Proprio come provano pena per King Kong, perché sebbene mostro sembra provare emozioni umane, provano pena per me. Se davvero mi ritenessero umana, mi tratterebbero nello stesso modo in cui hanno trattato l’uomo che, un mese fa, ha assassinato la sua ragazza perché gli aveva tirato in faccia un piatto di fagioli. Non lo dicono, a lui, che capiscono.
Ma cerchiamo di guardare il lato roseo. Fantasyland ha un nuovo regolamento, ora, e agli adolescenti non è permesso entrare, a meno che non siano accompagnati da un bambino. A parte questo, Cherry dice che tutto è come sempre. Dice che però non è lo stesso, senza di me, ed è convinta che l’uomo che ha preso il mio posto non durerà per tutta l’estate.
— Si lamenta disperatamente, nelle giornate più calde — mi ha raccontato l’ultima volta che è venuta a trovarmi. — Gli è venuto un eczema, e il prurito dappertutto lo fa impazzire.
Cherry dovrebbe saperlo, questo. In una giornata molto calda, la vita può essere un inferno anche per un Panino Imbottito. Non occorre essere King Kong, per soffrire.
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